bandiera del Principato Principato de Roe Basse, lo Statuto
bissa
bandiera del Principato


Principato de Roe Basse



Qualcuno recentemente ha chiesto lumi sullo stemma araldico del Principato.
Ben volentieri rispondo al quesito, almeno per quanto mi è dato conoscere sugli antichi simboli che ne fanno parte.
Naturalmente tali simboli derivano da avvenimenti o fatti del passato (ad esempio: Sedico=2 seghe) per cui è necessario fare una breve sintesi della storia del Principato.
Lo stemma nella sua attuale composizione è stato disegnato da Fabrizio De Salvador (così come la mappa del Principato) da Roe Alte, postino con vocazione artistica, su commissione dell'allora Principe Giulio I.o.
Nella biblioteca privata del Principe sono custodite ancestrali pergamene che nel riportare la storia del Principato ne esaltano anche i simboli.



Agli albori

Il Principato, bagnato ad oriente dalle acque del torrente Gresal e riparato dai venti del nord dalle colline Vignole, era quasi interamente ricoperto da una fitta boscaglia con piccole radure; sul terreno vi erano (e vi sono ancora) grandi e piccoli massi ed altri spuntano dalla poca terra, frutti questi di una antica frana, a sud, invece vi era una zona paludosa, attorno alle radure del bosco vi erano delle curiose  piante rampicanti che davano in autunno dei frutti a forma di grappolo con piccoli chicchi neri ed aciduli che, schiacciati, producevano una bevanda, pur acida, che bevuta in abbondanza dava dei sintomi di euforia.
Il nome Roe deriva infatti da un terreno cosparso di sassi e macerie, regno di rovi e di bosco; le piante più comuni erano carpini, delle varietà bianco e nero, querce, tigli, frassini, castagni e nei pressi dell'acqua ontani, pioppi e salici.
Vi era fino a qualche anno addietro, in prossimità della sorgente che sgorgava nei pressi dell'abitato di Scarlin al confine nord/est, una piccola grotta,  insediamento di un potente Druido, al cui interno vi erano dei graffiti raffiguranti scene di caccia e di vita rupestre a testimonianza di insediamenti preistorici.
Il Druido era uso a preparare pozioni, unguenti e decotti per le varie esigenze del suo popolo, cuocendo e distillando fiori e frutti del vicino bosco; tutto poteva venir buono per quelle pozioni, per cui un beato giorno provò a cuocere e a distillare quegli strani frutti a grappoli, ne usci una bevanda dal sapore forte ed acre che dava comunque una sensazione di caldo, di forza e di esuberanza.  Prima del crollo definitivo della grotta fu estratto un grande forziere in legno di quercia che, oltre a cimeli di varie epoche, conteneva quelle pergamene che vengono tramandate da un Principe all'altro e che l'attuale, Francesco 3°, custodisce gelosamente.
Purtroppo nell'aprire avventatamente il forziere le pergamene più antiche al contatto con l'aria si dissolsero, si fece giusto in tempo a vedere una scrittura di tipo cuneiforme, così almeno la descrissero coloro che avevano rinvenuto il forziere,  che naturalmente nessuno degli astanti  sarebbe riuscito a capire.
Non ci è dato sapere quanti di quei preziosi documenti siano ancora esistenti, il Principe non permette a nessuno di visionarli temendo che possano subire rovina o deteriorarsi.  

  Da quello che si sa, e non è molto, alcuni riportano delle rune, altri sono scritti quasi in latino ed altri ancora in un dialetto italico di non facile comprensione.
       Il venerando Druido gestiva con consigli ed indicazioni la piccola comunità locale nella vita di tutti i giorni; non erano particolarmente alti gli abitanti di allora del Principato, di bell'aspetto, soprattutto le donne, con folte e lunghe chiome; gente gioviale non incline alla violenza ma amante della bella vita ed usa a fare scherzi, erano dediti alla caccia ed alla pesca  e le donne coltivavano nelle rade radure del fitto bosco una pianta stagionale il cui frutto erano delle pannocchie e che loro chiamavano sork, e dei tuberi dagli alti fiori gialli che chiamavano kartufole.
  Le loro abitazioni erano piccole, essenziali, pur se ordinate e pulite; scavate nelle piccole colline sassose e finite sulle facciate, ove necessario, con muri di sassi, di cui era pieno il  terreno attorno alle case, coperte, dove il tetto era visibile, con paglia e scandole,  questo rendeva le abitazioni perfettamente mimetizzate   con il bosco circostante.
Uomini e donne calzavano delle scarpe leggere fatte con la pelle della selvaggina, gli uomini usavano dei calzettoni di lana colorata che proveniva dalle pecore che vivevano allo stato brado e che arrivavano alle ginocchia; i pantaloni  erano larghi, comodi per muoversi nei boschi, arrivavano al ginocchio ove erano allacciati, ed erano stretti in vita da una cintura di pelle; grandi camicioni di canapa, infilati nei pantaloni ed un gilet o di pelle o di lana cotta completavano l'abbigliamento maschile che nel periodo invernale contemplava un pesante mantello misto di canapa e lana con un grande bavero, fermato al collo da un laccio, e che veniva avvolto attorno al corpo; non erano usi portare copricapo.
Le donne usavano, anche loro, dei lunghi camicioni di canapa, abbelliti sul davanti da ricami colorati, che dalle spalle arrivavano fin quasi ai piedi, sopra il camicione portavano, allacciata alla vita, una grande e pesante gonna che arrivava a terra, il che consentiva alle stesse, poichè non portavano biancheria intima, di fare la pipì in piedi (tradizione tramandata fin quasi ai giorni nostri); sopra il vestito era completato con uno scialle ricamato, più o meno leggero in funzione della stagione. Erano solite annodare i lunghi capelli corvini, che raramente lavavano, in una o due grosse trecce che poi venivano arrotolate dietro la nuca e fermate con uno spillone. Le più giovani ancora libere da vincoli matrimoniali erano solite, con civettuola grazia, infilare dei fiori tra i capelli.
Amavano gli animali domestici e quasi in ogni casa vi era un cane o un gatto.
Credevano, come molti popoli di origine celtica, che creato e creatore fossero una unica identità, per cui, finita la vita, sarebbero tornati a far parte del creato in altra forma; niente paradisi eterni nè vergini da deflorare post mortem.

Il Druido, bell'uomo malgrado i tanti anni, più alto della media dei suoi concittadini, lineamenti fini e viso piacevole allo sguardo, con una lunghissima chioma bianca come bianca, candida, era pure la lunga barba, era uso vestire una lunga tunica di colore chiaro fermata in vita da una cintura ed ai piedi portava delle scarpe leggere che gli consentivano una camminata maestosa ed era uso portare un lungo bastone lavorato con incisioni. Ospitava nella sua dimora la Bissa; un enorme serpente di altri tempi sopravvissuto in lungo letargo all'era glaciale.
Si tratta di un animale docile che passava, e passa, la maggior parte del tempo in un parziale letargo; raramente si fa vedere da estranei, solo in occasioni di gravità o di particolari ingiustizie esce dal suo perfetto nascondiglio a porre rimedio all'incoscienza degli umani di cui si sente, inspiegabilmente, comunque protettore.
Non ci è dato sapere di cosa si nutra l'antico vertebrato, tutto fa supporre che sia vegetariano, non si hanno infatti notizie di sue razzie o attacchi verso altri animali presenti sul luogo.
    Ben lungi dal condurre una vita da asceta, il buon Druido era uso fare soventi visite all'Anguana che aveva messo dimora nei pressi della fontaneta in località Boscade.
La fontaneta è una sorgente perenne che ancora alimenta un piccolo ruscello che si getta nel Gresal dopo aver formato il lago de Vatai e dove andavamo a prendere l'acqua con secchi e thempedon prima che fosse costruito l'acquedotto.
Acqua cristallina e fresca nella quale la ninfa era  usa immergere quasi continuamente le femminee forme del suo corpo magnifico. Era alta la fanciulla, con lunghi capelli rossi leggermente arruffati, la pelle liscia era di colore chiaro, quasi diafano, grandi occhi verdi illuminavano lo splendido viso leggermente macchiato da piccole efelidi che le conferivano un'aria sbarazzina.
Portava una lunga e svolazzante veste bianca che nelle trasparenze di luce lasciava intravedere ed indovinare lo splendido corpo dalle lunghe gambe affusolate e dal prosperoso seno.
I piedi erano scalzi e sembrava camminare tanto sull'acqua del ruscello che fuori, quasi senza toccarne la superfice, come galleggiasse, ed al suo passaggio il fruscio delle foglie, provocato dal leggero venticello, si tramutava in dolce e soave melodia.
Malgrado tutti ormai sapessero della relazione del Druido, egli, naturalmente riservato, cercava sempre di non farsi notare mentre si recava dalla ninfa; per questo passava, attraverso il bosco, vicino ad un piccolo lago formato dall'acqua della sua sorgente dove vivevano numerosi e coloratissimi uccelli acquatici: anatre di varie specie, oche, beccacce ed aironi, talvolta vi erano anche delle gru ed  altri ancora.
Proseguendo ai piedi delle Vignole, arrivava ad un altro laghetto che si formava con l'acqua piovana e per le infiltrazioni dalle colline, anche sulle sponde di questo nidificavano parecchi volatili ma la maggior parte della popolazione lacustre erano anfibi, batraci e qualche biacco. Proseguiva poi spedito, nessuno abitava quei boschi, verso la sua meta.
Seduti sui sassi prospicienti la fontaneta, cibandosi dei gamberi che vivevano numerosi nel ruscello,   i due elucubravano e disquisivano sui grandi temi della vita tenendosi per mano fino a che il sole lasciava i confini del mondo e si coricavano con il canto dei grilli cullati dai teneri rumori della notte.
Un orrendo satiro, più volte scacciato dalle alte grida proprie delle anguane con aggiunta di qualche sassata, spiava i due dal folto della vegetazione. Non davano comunque molta importanza i due al voyer che tutto sommato non li disturbava; metà uomo e metà capro, abitava costui nel piano  al di la del Gresal;  viveva con una perenne erezione assieme a poche pecore, qualche capra ed un'asina e di fatto puzzava come tutti loro.
Per non annoiarsi suonava, con notevole maestria, uno strano strumento composto da sette canne tagliate a misura diversa che aveva portato dal suo paese di origine.

Giulio 1°, detto anche il magnanimo, una  sera, di particolare euforia etilica, presso il suo personalissimo ufficio al bar Larin, con grande riserbo concesse la visione di una piccola   parte degli antichi documenti a pochi eletti.
Non erano molti a dire il vero, preziosi comunque. Risultarono indecifrabili quelli più antichi che si erano salvati dal dissolvimento, i pochi caratteri ancora visibili tra i morsi di roditori erano scritti in un linguaggio ancora sconosciuto. Di non facile comprensione neppure gli altri, gli astanti non conoscevano l'alfabeto runico ed ancora meno il latino, riuscirono comunque a tracciare a grandi linee un percorso della vita e della storia della comunità.
Pur se era evidente una presenza sul territorio da epoche più lontane non si riuscì a stabilire quale fosse il tipo di vita o  se vi fossero contatti con altre popolazioni fino alla venuta dell'impero romano.
  Visto il carattere battagliero e prevaricatore dei Romani cercarono a tutti i costi  di evitare qualsiasi contatto con quella gente; furono fortunati in questo; le due vie che i Romani percorrevano per andare al nord, trasformarono il Principato in una specie di isola che, visto il fitto bosco, agli esploratori di quell'orda rapace sembrò disabitata e priva di interesse.

Gli Unni

Tranne i pochi contatti con i villaggi vicini per scambiare qualche merce o per comprare una moglie, il primo vero contatto di quella comunità con il mondo esterno avvenne attorno al 450-500 d.C., quasi per caso.
Gli Unni discesi dal Cadore, si divisero dove oggi sorge l'abitato di Ponte nelle Alpi; il grosso, con Attila in testa, andò a saccheggiare Aquileia, mentre donne, bambini, vecchi e i feriti nelle precedenti battaglie ancora in convalescenza, con opportuna scorta armata, cercando di evitare le vie battute dai romani arrivarono nel Principato e posero accampamento sulle rive del Gresal (per questo successivamente i romani eressero la fortificazione di Noal) nei pressi del guado della pantegana, dove soggiornarono a lungo per ritemprare le forze in vista della calata nella pianura.
Quello che più colpì nell'aspetto di costoro erano naturalmente i caratteri somatici, la pelle di colore giallastro, gli occhi a mandorla, la quasi assenza di zigomi, i nasi molto grossi, la pelosità dei loro corpi e le enormi sopraciglia a cespuglio (sembra che Elio delle Storie Tese discenda direttamente da loro).
Erano più bassi dei locali, tarchiati e muscolosi con lunghi capelli neri, talvolta intrecciati,  folte barbe e tutto il loro corpo era coperto da una forte peluria che probabilmente serviva a proteggerli dal freddo gelido della lontana Siberia dalla quale provenivano.
Le donne, anch'esse irsute, anche le nostre ave avevano un pò di peluria sotto il naso e qualche pelo su varie parti del corpo, ma queste avevano dei baffi da paura, erano più piccole degli uomini, quasi tutte con forme tondeggianti e con le gambe particolarmente corte.
Varie etnie componevano quel popolo, per cui il loro abbigliamento era un pò alla va che vai bene; non esisteva un modello standard, gli indumenti erano prevalentemente di pelli o di stoffe che avevano razziato nella guerra con la Cina.
Pur se di fogge diverse l'abbigliamento maschile era composto in larga misura da stivali fino al ginocchio nei quali erano infilati i larghi pantaloni, portavano poi una lunga giacca che arrivava alle ginocchia, allacciata dal collo alla vita ed aperta dietro dalle ginocchia ai lombi per consentire libertà di movimento a cavallo; alla cinta portavano una corta ed affilatissima spada.
L'abbigliamento femminile prevedeva stivali fino al polpaccio, una specie di gonna pantalone che si fermava alle ginocchia ed un corpetto corto e senza maniche, anche loro usavano degli scialli nelle giornate più rigide.
Vivevano promiscuamente in grandi tende e spesso litigavano tra loro  per futili motivi, avevano dei cavalli piccoli e nervosi non del tutto domi, al seguito avevano grandi carri con le provviste, una piccola mandria di bovini, un gregge di pecore, alcuni maiali ed altri animali che oggi definiremo da cortile. Vi era molta titubanza nei nostri avi a stabilire un'incontro, le rade notizie che avevano avuto dal mondo esterno parlavano della violenza e delle atrocità commesse da quei barbari.
Il primo incontro avvenne sulle rive del Gresal, le nostre donne vi si erano recate per lavare i panni, come erano use fare, ed alla stessa mansione si erano dedicate anche alcune unne. Dopo alcuni momenti di tensione nei quali nessuna pronunciò verbo si scambiarono dei timidi cenni di intesa e di saluto e successivamente, pur con le difficoltà della diversa lingua, stabilirono dei rapporti di amichevole convivenza.
Le Unne invitarono le donne del Principato al loro campo, dove passarono il pomeriggio a parlare e sparlare, come di consueto nell'emisfero femminile, di qualsiasi cosa. Gli uomini, vedendo che tardavano e timorosi che fosse successo qualcosa di brutto alle loro donne si decisero finalmente ad andare al campo dove furono accolti benevolmente, furono fatti sedere con le consorti attorno ad un grande fuoco e fu loro servita una strana bevanda ambrata, di cui gli Unni facevano largo consumo, che era stata precedentemente ben raffreddata nelle fresche acque del torrente e che versandola produceva candida schiuma. Qualcuno andò a prendere un pò del distillato del Druido, che nel frattempo aggiungendo frutta fiori o bacche era notevolme4nte migliorato di gusto,  e fu festa fino al sorgere del sole.
La mattina dopo il Druido, che rientrava allora dalla fontaneta, fu messo al corrente di quell'avventura ed incredulo, anche lui fuorviato dalle notizie che circolavano su quel popolo, volle andare a controllare. Quel popolo, feroce, determinato e sanguinario in battaglia, si rivelò, contro ogni aspettativa, formato da persone socievoli, addirittura gioviali, ed amanti del far  festa.
Anche a lui fu servita la fresca bevanda che gli piacque molto, per cui dialogando con i saggi del gruppo, e soprattutto con i cantinieri, cercò di averne la ricetta. Seppe così che loro avevano imparato a produrla durante la campagna di Cina e in neppure tre nottate di bagordi riuscì a carpire tutti i segreti di quel magico nettare.
    Pur se stanco e notevolmente provato il Druido tornò al proprio alloggio ma prima di coricarsi per il più che meritato riposo, convocò alcuni degli uomini del suo popolo e dette disposizione affinchè nel piano fertile di Costalonga fosse piantato dell'orzo.
Nei giorni successivi il Druido prese contatto con i mastri che lavoravano i metalli e scambiando con loro unguenti e distillato si fece costruire tutto quello che serviva, dalla preparazione del malto alla maturazione, per produrre l'ambrata bevanda.
Avvenne poi che un caldo pomeriggio alcune fanciulle di entrambi i gruppi si recassero presso una profonda polla del Gresal per fare il bagno nelle fresche, chiare e dolci  acque, e nude, mostravano al sole la loro prorompente ed acerba bellezza adolescenziale.
Il padre di una di esse si era sistemato sulla riva per fare la guardia e garantire l'intimità alle fanciulle; ad una certo punto  fu attratto dal movimento ritmico di alcune fronde di un cespuglio. Pensava a qualche animale e con circospezione, era un valente cacciatore, si avvicinò e scostò i rami tremolanti; rimase assolutamente basito nel trovarsi di fronte quello strano individuo che armeggiava con il suo enorme coso; d'istinto vibrò un fendente con la corta ed affilata spada che aveva usato per spostare le fronde e alte si levavarono le urla stridenti del satiro che si premeva con entrambe le mani il basso ventre, mentre il suo coso ormai privo di vita e irrimediabilmente sgonfio rotolava sulla ripida scarpata ed era preda dei flutti che lo indirizzavano verso il mare. Le fanciulle uscirono dall'acqua, raccolsero in qualche modo le loro vesti cercando di coprire le pubenda ed urlando corsero verso un rifugio sicuro.
Il satiro continuava ad urlare frasi inintelligibili (probabilmente in quel greco antico che era la sua lingua madre) e richiamati dal trambusto accorsero alcuni Unni, che, attorniatolo, si chiedevano che cosa diavolo fosse quell'essere per metà umano e per metà caprone.
Lo punzecchiarono con la punta delle spade mentre il malcapitato continuava ad emettere suoni laceranti senza per altro togliere le mani da dove prima sbucava la sua virilità, alla fine uno dei giovani cacciatori esausto da quelle grida senza senso, vibrò anch'egli un fendente e la testa del satiro rotolò nella scarpata e finì nell'acqua, forse cercando di raggiungere l'ammennicolo che era stato reciso prima. Discussero ancora a lungo gli Unni che mai avevano avuto modo di sapere dell'esistenza di cotanto abominio; poi giunsero ad una decisione collegiale, lo spellarono, lo eviscerarono e lo misero a bagno, legato per uno zoccolo, nell'acqua corrente come si faceva con i gatti e le volpi per levare loro l'odore ed il gusto di selvatico.
Il giorno dopo le carni avevano perso la nauseabonda puzza, così lo cucinarono sulle braci ungendolo di tanto in tanto con il grasso di maiale e quando fu ben cotto se ne cibarono avidamente.  Questa fu la ingloriosa fine del, credo, ultimo discendente del dio Pan.
Alcuni cacciatori risalirono poi le tracce del satiro e giunti al suo immondo tugurio; vi trovarono le pecore, le capre e l'asina e le sospinsero verso il loro campo. Qualcuno voleva unirle alle loro greggi ma prevalse la tesi che, pur se incolpevoli, erano comunque animali pervertiti dalla loro convivenza con la bestia e fu quindi deciso di abbatterli per fare una grande festa.
  Alla festa naturalmente furono invitati anche i locali e il caso volle che in quel periodo fosse giunto alla giusta maturazione il sork che le donne coltivavano nelle radure. Appena tutto fu pronto furono accesi dei grandi fuochi e la festa ebbe inizio, mentre pecore, capre ed asina venivano cotte sulle improvvisate graticole alcune pannocchie furono bollite e d altre furono abbrustolite sulle braci.
  Questo frutto, che essi non conoscevano, piacque ai nomadi che ne mangiarono con avidità; poi la festa continuò fino a mattina, come ogni festa che si rispetti.
Durante le abbondanti libagioni qualcuno intonò, con voce resa rocca dall'umidità della notte, qualche improvvisato canto con gli altri che provavano a fare il coro. Sembra, naturalmente il condizionale è d'obbligo, che sia stato  proprio in quel momento che nacquero pezzi epici che rimasero nella storia della musica come Rosina damela e E mi e ti e Toni (che per altro diverra in tempi recenti l'inno del Principato).

Alcuni giorni dopo la mega festa, un cacciatore imbattutosi per caso in delle piante di pannocchie ne volle cogliere alcune per portarle alla propria tenda, provò a cuocerle ma i chicchi ormai maturi ed essiccati risultarono poco commestibili.
La sua donna comunque, si chiamava Kaliera ed era una donna intelligente e dotata di grande fantasia, non si perse d'animo e provò a schiacciare quei chicchi in un mortaio, come faceva con il riso per fare un pastone per i bimbi che dovevano essere svezzati.   Ne ottenne una farina grezza che provò a cuocere nell'acqua bollente, venne fuori un pastone gradevole al gusto, tanto che chiese ai fabbri, che erano già allora molto esperti nella lavorazione dei metalli,  di costruirle un recipiente adatto a quella cottura che prevedeva quasi un continuo mescolamento.
I mastri presero una lastra di rame e cominciarono a martellarla, dopo varie ore di lavoro e varie prove il recipiente fu pronto alla bisogna; era nata la prima caliera (nome datole in onore della signora che l'aveva ideata) della storia, dalla forma ancora attuale e di conseguenza nacque anche la prima vera polenta. Soddisfatti del risultato ottenuto i fabbri ne costruirono altre ed alcune furono donate ai nostri avi, la più bella, abbellita da ricami ed incisioni, fu regalata al Druido.

Era ormai autunno inoltrato, con i carri che portavano il frutto delle razzie erano giunte anche voci che ormai Aquileia era caduta e quindi prossimamente anche i nostri Unni si sarebbero spostati verso altre conquiste. Un tardo pomeriggio ci fu parecchio trambusto al campo nomade, urla, grida e gente che accorreva verso il guado della pantegana: Attila con alcuni luogotenenti era giunto in visita alle sue donne, pago e sazio di onore e gloria aveva desiderio di soddisfare delle naturali esigenze.
Arrivò in sella ad un enorme cavallo nero con gli occhi fiammeggianti, era più alto dei suoi uomini, aveva lunghi capelli corvini raccolti in una lunga treccia e non aveva barba (sembra che alcuni Unni avessero la consuetudine di grattare le gote dei fanciulli per far si che poi non crescesse la barba), scese da cavallo, scambiò qualche rada parola con i capi di quella comunità gettando nel contempo uno sguardo al campo con occhi che sembravano brillare, si recò poi alla tenda delle sue mogli e vi si chiuse dentro con loro.
Tutta la notte da quella tenda si levarono gridolini e guaiti ed anche quasi tutto il giorno seguente la tenda rimase chiusa, poi verso sera con un volto completamente rilassato apparve Attila e si sedette attorno al fuoco con gli altri.
Anche qui la storia e le dicerie si rivelarono fuorvianti, Attila era senza dubbio un guerriero spietato e sanguinario, quando era al comando delle sue truppe, nella vita civile invece era un tipo molto socievole e alla mano. Gli furono presentati il Druido ed alcuni altri dei locali con i quali conversò amabilmente mentre provava, oltre alla loro bevanda ambrata, i vari distillati del Druido.
Riferì agli astanti della situazione di Aquileia, delle grandi  ricchezze razziate e  della distruzione dell'importante città Romana, velatamente parlò di una promessa di matrimonio non mantenuta che avrebbe provocato la sua furia verso quella città. Poi annunciò l'imminente trasferimento di tutti loro verso la pianura Padana.
    Verso l'alba, cominciò a raccontare anche qualche aneddoto delle varie ed innumerevoli avventure tra oriente ed occidente e si soffermò a parlare del suo meraviglioso cavallo. Era uno splendido animale del color della pece, era più alto e più robusto degli altri cavalli di quell'esercito, con degli zoccoli enormi, aveva occhi che sembravano di fuoco e si lasciava cavalcare solo da Attila.
Parlando dell'equino, oltre che esaltarne le doti in battaglia, l'Unno lo descrisse  animale di una voracità ineguagliabile tanto che quando strappava l'erba per mangiarla ne strappava anche le radici per cui poi l'erba avrebbe faticato a ricrescere.
Probabilmente raccontò in altre occasioni di questa abitudine del suo destriero, qualche storico in vena di facezie poi la interpretò in altro modo e tramandò alla storia una ulteriore diceria.
Nel primo pomeriggio Attila ed i luogotenenti, dopo naturalmente i saluti di rito, ripartirono per raggiungere il grosso delle truppe che già si erano dirette verso il Po, mentre gli altri cominciavano a smontare il campo e si prepararano a raggiungerli.
I grandi falò che quasi tutte le sere brillavano nel campo dei nomadi avevano inciso parecchio sulla vegetazione del Principato, certo avevano contribuito ad allargare notevolmente le radure preesistenti consentendo l'incremento delle coltivazioni; anche la selvaggina, che prima del loro arrivo era abbondante e facilmente cacciabile, sottoposta ad un improvviso eccesso di prelievo venatorio era diventata merce preziosa, di conseguenza il Druido si sentì in dovere di chiedere una specie di risarcimento danni.
Il capo villaggio, visto anche il notevole bottino che era arrivato dalle pianure Friulane, aderì ben volentieri affermando di averne parlato anche con Attila prima della sua partenza, così allora furono consegnate ai villici granaglie ed altri alimenti per superare l'imminente inverno ed inoltre, in cambio di unguenti, pozioni e distillati vari, alcuni capi di bestiame e numerose sementi.
Fu mesta la partenza degli Unni, dopo tutto quel tempo erano nate delle sincere amicizie e in entrambi gli schieramenti c'era che si era legato con particolare affetto agli altri. Quegli affetti sembra che avessero comportato anche degli scambi di liquidi organici e l'anno successivo nacquero nel villaggio dei bambini con pronunciati occhi a mandorla mentre tra gli Unni ne nacquero con occhi che non lo erano.

Pur continuando ad essere cacciatori i villici dovettero fare di necessità virtù e cominciarono a coltivare la terra e ad allevare il bestiame.
Giunsero voci sulle alterne fortune in battaglia dei nostri ospiti che intanto si erano sempre più spinti verso il cuore dell'impero ormai in sfacelo, una grave pestilenza aveva colpito le truppe di Attila che ad un certo punto dovette desistere dal continuare la campagna di conquista e tornare ad est; qualche storico parlò anche dell'intervento di un papa, ma era difficile credere che il cosidetto flagello di Dio potesse essere fermato per quel motivo, probabilmente il papa ed il comandante delle milizie romane, Ezio, che aveva schierato le sue truppe con l'utopica speranza di fermare l'orda, portò abbastanza oro da convincere Attila a desistere da ulteriori incursioni.
Per il ritorno scelse un'altra via e non passò più da noi, qualcuno volle credere in un estremo gesto di cortesia nei nostri confronti in quanto non aveva voluto contaminarci con la grave malattia che affliggeva il suo popolo.

Il Medioevo

Così cominciò il medio evo. Dopo l'avventura con gli Unni il Principato tornò a chiudersi su se stesso, non vi erano, nei documenti del Principe, notizie di avvenimenti importanti per quelli che furono definiti i secoli oscuri, la popolazione, grazie ancora al naturale isolamento tra le due vie principali, non fu coinvolta nelle guerre feudali ed anche se i contatti con le popolazioni limitrofe si erano giocoforza intensificati riuscirono a vivere tranquillamente nell'anonimato.
Il nuovo tipo di vita, allevamento e coltivazione, imposero di sacrificare ulteriormente il bosco e di allargare le radure.
Quasi per caso incontrarono un mercante di legname, era interessato a tronchi di quercia e di castagno, piante che dopo opportuno trattamento resistevano per molti anni anche immersi nell'acqua. Ottennero un vantaggioso contratto con scambio di merci di pregio per quei  tronchi, piante secolari e numerose nel Principato, che trasportavano o approfittando delle frequenti piene del Gresal o con grandi carri trainati da buoi alla confluenza del Gresal con il Piave dove incontravano alcune persone che  non parlavano proprio lo stesso dialetto ma con i quali riuscivano a capirsi.
I loro tratti somatici erano molto simili a quelli dei nostri avi, avevano fisici asciutti e vigorosi, visto il duro lavoro, e vestivano in modo molto leggero, braghe al ginocchio e blusoni, estate ed inverno per essere più comodi nei loro movimenti.
Costoro con i tronchi colà portati costruivano delle solide zattere che poi, messe in acqua, viaggiavano fino alla foce del fiume dove le cedevano ad un popolo che, spaventato dalle invasioni dei barbari, si era rifugiato nella laguna e che usava quel legname per costruire le fondazioni delle loro case ed i moli per le loro barche. Sembra che buona parte di quel popolo lacustre fosse costituita da profughi di Aquileia, per cui, nel dubbio, i nostri evitarono di parlare del rapporto avuto con gli Unni.
Malgrado il Cristianesimo fosse orami dilagato in tutto quello che era stato l'impero Romano, nel Principato non aveva ancora attecchito; continuavano a credere nella natura e nel rispetto reciproco senza avere dei o Dio con necessità di continue conferme o con particolare configurazione.
  Rimasero sorpresi di quanto invece fossero religiosi e legati al loro credo quei rudi montanari, tanto che   molto spesso essi invocavano il loro Dio abbinandolo talvolta a quella che loro ritenevano una grande ricchezza e che era rappresentata dagli animali domestici o dalla selvaggina. Soprattutto quando fortuitamente ed accidentalmente o incespicavano nei tronchi sparsi sulla riva del fiume o si martellavano le dita assemblando le zattere o avevano altri piccoli incidenti, quelle invocazioni diventavano addirittura delle litanie.
Convinti nella loro semplicità che l'uso di quelle invocazioni nelle frasi fosse un buon segno di cultura e civiltà, vogliosi di avvicinarsi al mondo esterno, anche loro cominciarono ad inserirle nel linguaggio comune, tanto che presto ogni discorso fu infiocchettato da quel modo di esprimersi.
Fu un duro lavoro, malgrado avessero imparato a costruire gli attrezzi opportuni, abbattere i tronchi, divellere ed estirpare le radici ed i ceppi, spostare o spaccare le pietre che cospargevano il terreno; alla fine ed in numerosi anni erano riusciti ad avere dei grossi appezzamenti liberi da piante da utilizzare per pascoli e fienagione e per coltivare quanto serviva, ed anche di più, lavoro che li rese autonomi nelle loro esigenze di sopravvivenza.
Il Druido era di età indefinibile ma di certo viveva da moltissimi anni ed anche se ancora vigoroso e di bell'aspetto, gli mancava un pò il suono dello strano flauto del satiro quando andava a visitare l'anguana, pensava di concedersi un meritato riposo. Così ritenne anche che ormai il suo popolo avesse raggiunto la maturità per amministrarsi da solo, per cui convocò in assemblea tutto il Principato ed espose l'idea che ci fosse un capo eletto che avrebbe deciso come meglio gestire la comunità.
Sulla scorta delle notizie che talvolta giungevano e che parlavano di feudatari e dei loro titolo nobiliari decisero che il titolo più giusto da attribuire al loro capo sarebbe stato quello di Principe, titolo comunque non ereditario ma elettivo pur se era a vita.
I più valenti giovani furono invitati a candidarsi per l'alta carica e dopo che vi fu un numero sufficiente di candidati, a garantire una scelta democratica, fu convocata di nuovo l'assemblea che avrebbe espresso per acclamazione l'eletto.   Giustamente votavano anche le donne, caso unico per quei tempi, ed il voto premiò tale Dragonzio, giovane e robusto figlio dei boschi.
Il voto femminile fu determinante in questa scelta, d'altronde è arcinoto che buona parte dell'elettorato femminile da sempre vota con una specifica parte del proprio corpo. Il giovane Dragonzio era meglio conosciuto, chissà perchè,   con il sopranome di Cassiodoro, soprannome che scelse nell'investitura definitiva adottando perciò il nome di Cassiodoro 1°.
Nei giorni successivi il Druido passò le incombenze al neoeletto, naturalmente non vi erano molte cose da fare, risolvere le piccole controversie che potevano nascere tra le persone, indicare i tempi di semina e raccolto, intrattenere i rapporti, sia commerciali che di socializzazione, con il mondo esterno ed altre piccole incombenze.
Il Druido decise anche di passare le ricette dei suoi unguenti e pozioni a persone responsabili che avrebbero continuato la tradizione delle cure naturali, mentre affidò a persone serie, ma non troppo, la produzione della bevanda ambrata che ormai tutti chiamavano bira e dei vari distillati.
Naturalmente il Druido amava troppo il suo popolo per lasciarlo nell'incertezza, e rimase a vigilare e a dare consigli finchè Cassiodoro non fu padrone della situazione; poi, sempre comunque vigile, si dedicò ad un'intensa opera di socializzazione presso le varie famiglie visitandole spesso, soprattutto all'ora di cena, ed insegnando ai giovani a leggere e scrivere nel nuovo dialetto italico che si andava diffondendo.
Nella nuova veste di produttori agricoli e di artigiani del metallo i nostri furono obbligati ad intensificare i rapporti con le comunità circostanti e con il mondo esterno; l'impero Romano ormai non esisteva più, era iniziata già da tempo l'era feudale e pur se incontravano sempre più sovente preti e cavalieri riuscirono a non essere coinvolti nelle quasi continue guerre di possesso che coinvolgevano di volta in volta, talvolta alleati e talvolta nemici, fazioni rappresentate da Vescovi e feudatari.
Tra i compiti del Principe e dei suoi delegati vi era anche quello della ricerca di nuovi mercati per le merci in eccesso nel Principato per cui adeguarono il proprio abbigliamento a quello più consono usato dal resto delle popolazioni limitrofe, si dotarono di vessillo, il principe si fece costruire un'armatura ed un anello sigillo (per firmare i documenti ufficiali) con i simboli propri della loro tradizione, per cui tanto sullo stendardo, che era di colore giallo con bordo nero, sull'anello e sul petto dell'armatura, campeggiavano la Bissa, il tralcio di vite e la Kaliera.
  Anche l'abbigliamento della popolazione era cambiato nel tempo pur senza discostarsi eccessivamente da quello originale che consentiva ampia libertà di movimento, solo usavano al posto delle pelli, stoffe e tessuti di pregio ora facilmente reperibili nei mercati locali.
La vita scorreva tranquilla, i principi si susseguivano mentre gli anni passavano ed un discreto benessere si era diffuso tra la popolazione.

Verso l'anno 1.000, o poco più, vi fu  a seguito di una delle tante guerre feudali un momento di crisi del mercato, per cui, Ulrico 11° detto l'avventuroso, Principe di Roe Basse in carica per volontà del popolo, decise di intraprendere l'avventura di cercare nuova collocazione dei prodotti in aree più lontane del solito.
Girovagando per i borghi della ValBelluna, Ulrico, aveva sentito parlare di una grande città con un'imponente castello, lambita da un grande e placido fiume, ove si sarebbero riuniti per una cosa, che gli dissero, molto importante, nobili e cavalieri di varia provenienza.
L'avventuroso decise che anche il Principato meritava di esserci, per cui   fece caricare alcuni grossi carri con le merci da cedere, bira, distillati, infusi ed unguenti, granaglie, attrezzi per l'agricoltura e vari altri articoli di artigianato ed indossata l'armatura si mise alla testa del convoglio composto da numerose persone curiose più che altro di vedere qualcosa di nuovo e diverso.
Egli montava un grande cavallo nero, con appeso di fianco alla sella un grande scudo triangolare con i simboli del Principato, la sua armatura, opera di sapienti mastri artigiani locali, sembrava  lampeggiare al caldo sole di fine estate, come lampeggiava l'elsa della  preziosa spada che portava alla cinta e che aveva acquistato da un mastro spadaio in quel di Formegan.
  Anche altri cavalieri, che componevano il seguito e che avevano il compito di vigilare che tutto avvenisse senza problemi, erano agghindati allo stesso modo ed anch'essi portavano spade che erano il vanto di mastri spadai di Formegan e di Belluno.
Presero la via che già avevano preso gli Unni per andare verso la pianura, il primo giorno passarono vicino ad una città murata, destando la curiosità della popolazione che incontravano ma senza che alcuno andasse a disturbare il loro viaggio, poi faticarono parecchio per una tortuosa e lunga discesa, i carri erano molto pesanti, che li portò a costeggiare un'impetuoso fiume, qui il Principe basandosi sulle notizie raccolte   decise di proseguire nell'ampia vallata che si apriva di fronte a loro seguendo il cammino del sole.
  Passarono, indisturbati, vicino a borghi e castelli ma Ulrico voleva giungere a quella grande città che gli era stata sommariamente descritta , così proseguirono per parecchia strada quasi a tappe forzate e giunsero stremati sulle rive di un grande lago. La meta era ormai vicina, e sistemarono il campo per ritemprare le forze con una lunga sosta.
Girovagando per curiosare, alcuni giunsero ad un villaggio che sorgeva a metà della montagna che sovrastava il lago; scambiati i convenevoli di rito con i residenti e risposto alle loro domande di rito, si informarono sulle abitudine e sul modo di vivere di quel popolo, scoprirono così che essi estraevano l'argento da una piccola miniera e curiosi vollero vederla, i residente non ebbero difficoltà a far loro vedere l'imbocco della miniera ed il contiguo laboratorio ove lavoravano quanto estratto dalla terra, trasformando l'argento in collane e monili di varia foggia e di pregevole fattura.
Rimasero sorpresi dal colore e dall'odore che emanava un piccolo ruscello che usciva dalla miniera; l'acqua era di un acceso colore rosso arancione ed odorava di zolfo e gli dissero che faceva bene al corpo immergervisi. Colore ed odore di quell' acqua non erano certo invitanti e i nostri preferirono non bagnarvisi, acquistarono alcuni monili e si accomiatarono.
Ripartirono all'alba del giorno seguente ed ancora in mattinata giunsero in vista della città, dall'alto la videro adagiata in tutta la sua imponenza sulla pianura sottostante, lambita dal placido fiume con al centro dell'abitato un'enorme ed imponente castello; rimasero senza parole, era la prima volta che vedevano una città così grande, il Principe era soddisfatto, stanco anche lui ma soddisfatto, il borgo sembrava pieno di vita ed attorno alle mura vi erano parecchi accampamenti con stendardi di vario genere.
Scesero ancora con qualche difficoltà verso la pianura e giunti ai limiti della città i carri si diressero verso la zona del mercato ove immediatamente misero in esposizione le merci mentre il Principe con il suo personale seguito montava la propria tenda vicino a quelle degli altri feudi.
Quando l'opera fu compiuta piantò il grande scudo vicino all'ingresso della tenda, espose lo stendardo e si sedette su un grande scranno di quercia che aveva portato, scranno tutto intarsiato e di nobile fattura; giusto di fronte alla tenda con a fianco, come vedeva che facevano gli altri, il suo ciambellano, anch'egli seduto, ed uno dei suoi cavalieri armato di lancia, gli altri cavalieri avevano accompagnato i carri delle merci.
Giunsero poco dopo, scortati da armigeri a piedi, su due meravigliosi cavalli bianchi bardati con preziosi finimenti, due notabili della città ed uno scrivano, lo scrivano naturalmente era a piedi ma aveva con se due aiutanti che portavano carte, leggio e quanto altro fosse necessario alla sua incombenza.
I due nobili vestivano quasi in fotocopia una giacca chiusa fino al collo di velluto nero con un ampio colletto bianco e ricamato che fuoriusciva attorno al collo, pantaloni larghi pure di velluto nero infilati in lunghi stivali, neri anch'essi, dotati di appuntiti speroni; sul capo portavano un ampio cappello floscio, come era di moda tra i nobili, abbellito da qualche ricamo colorato.
Cavalli e cavalieri davano una impressione di grande maestosità.
Uno di essi si rivolse ad Ulrico in uno strano linguaggio, che poi si seppe essere Germanico, che naturalmente Ulrico non comprese; visto il gesto di incomprensione di Ulrico, gli si rivolse usando stavolta il latino che ancora era considerato lingua ufficiale e veniva usato per i documenti importanti.
Ulrico, come tutti i suoi sudditi, considerava il latino una lingua non solo morta ma addirittura sepolta da molto tempo; capì comunque che venivano richieste le sue generalità per cui rispose: Ulrico 11°, dimostrando con il numero la longevità del titolo, Principe di Roe Basse.
Il cavaliere fece quindi un gesto allo scrivano; un ometto piccolo e dimesso che nelle vesti imitava i due notabili, il quale fece a suo volta un gesto ai suoi aiutanti, costoro si appropinquarono, disposero il leggio e quanto altro serviva allo scrivano e si disposero ai suoi lati.
Rimboccatosi le ampie maniche egli srotolò una grande pergamena già irta di nomi e casati ed intinta la penna d'oca nel calamaio tornò a rivolgere la domanda di generalità al nostro che naturalmente le ripetè. Con scrittura aulica e svolazzante riportò costui i dati ed Ulrico sbirciando vide che il suo nome e casato erano posti in colonna subito sotto a quelli del Principato del Liechtenstein e appena sopra gli sembrò di leggere la parola Tirolo.
Completata la sua opera lo scrivano fece un ulteriore cenno ai suoi aiutanti che raccolsero le sue cose, il secondo cavaliere si rivolse quindi ad Ulrico con sussiego, per dirgli che era convocato con gli altri feudatari al castello nel tardo pomeriggio, poi lentamente con movimenti eleganti tornarono verso la città.
Probabilmente il notabile era stato più preciso con l'orario, ma il nostro Principe non aveva dimestichezza con le ore del giorno,  sapeva che all'alba ci si alzava e si lavorava finchè il sole era alla massima altezza, si mangiava qualcosa di frugale e si faceva un breve riposo, poi tornati al lavoro si attendeva che lo stesso sole lambisse le vette Feltrine e si tornava a casa.
Così senza por tempo in mezzo, il nostro eroe, si avviò verso il centro della città e verso l'imponente castello. Naturalmente passò prima dal mercato per vedere come andava, e andava benissimo, gli articoli portati destavano molto interesse e le merci venivano vendute alacremente, tanto che anche i cavalieri, spogliatisi dell'armatura contribuivano alle trattative.
Con qualche fatica il Principe riuscì ad avvicinarsi al capo spedizione, Bertrando, che indossava il copricapo ormai in uso nel Principato e che sprizzava soddisfazione da ogni porro. Il cappello era ormai accessorio quasi di uso comune, era di feltro rigido, di vari colori, aveva la cupola arrotondata e la tesa che davanti faceva da visiera era ripiegata sugli altri tre lati, era tenuto in forma sotto la cupola con una fascia nella quale sul lato sinistro, sovente, veniva adornato infilandovi lunghe piume di uccelli.
Bevvero insieme una caraffa di <>bira, parlarono brevemente dell'andamento del mercato ed Ulrico si avviò verso la sua incombenza.
Naturalmente si era agghindato al meglio, non voleva di certo sfigurare. Tolta l'armatura, non era un guerriero e si sentiva soffocare in quella scatola di latta, aveva indossato una camicia di raso bianco con svolazzi sul petto e ai polsi, pantalone beige corto ed aderente che oltre alla sua possente muscolatura (era pur sempre un boscaiolo), metteva in risalto anche la sua prorompente dotazione procreativa, gilet di pelle e giacca nera  lunga, ricamati con i simboli del principato in color avorio, calze di seta bianca ricamate anch'esse, cappello rigido di feltro nero adornato con una lunga piuma di fagiano, gabbano nero come neri erano i mocassini dotati di fibbia dorata, naturalmente, come si conveniva per un cavaliere, al fianco cingeva la sua preziosa spada.
Il percorso non era molto lungo ma lui ritenne, in fin dei conti tra i suoi compiti vi era quello di socializzare, di fermarsi in qualcuna delle numerose taverne dalle ampie porte spalancate, che ammiccavano tentatrici lungo la strada. Non capiva molto di quello che gli dicevano gli indigeni, non gliene importava poi molto, degustava, in ognuna di esse, ampie porzioni di una bevanda bianca o nera che essi chiamavano vin e che lo riempiva di euforia.
A dire il vero quella bevanda somigliava a quella che alcuni nel Principato ottenevano spremendo i grappoli del rampicanti del bosco, qualcuno li coltivava pure, ma mentre quella del Principato era acida e quasi imbevibile, questa era molto gradevole e  buona e lasciava il palato  secco tanto che veniva voglia di berne dell'altra.
Così ben disposto verso tutto l'universo giunse alfine al castello.
Varcato il cancello si trovò in un grande cortile, vi erano armigeri e guardie con uniformi diverse  in ogni dove, i nobili si erano quasi tutti portati la scorta. La cosa non lo mise in angustie, preferiva che la sua scorta stesse vendendo la merce, quindi senza patema alcuno proseguì il percorso verso l'ingresso; lungo il percorso per accedere alle sale, che era assolutamente sgombro,  vi erano a intervalli regolari e su entrambi i lati delle guardie con le insegne della città.
Entrò nell'enorme salone già pieno di cavalieri e dame; il salone era illuminato da torce e grandi lumi ad olio, alcuni giullari starnazzavano tra la gente, giocolieri si esibivano in appassionanti numeri circensi e in un angolo su apposito palchetto alcuni menestrelli allietavano la serata.
Consegnò all'ingresso, nell'apposito guardaroba, spada, cappello e gabbano, che furono posti in un mobiletto a lui riservato, e subito dopo una graziosa giovane cameriera gli servì un grande boccale di vin. Bevve avidamente quel vin che gli sembrò ancora migliore di quello delle taverne, poi posato il boccale si addentrò tra la gente; i cavalieri, tutti elegantissimi, sfoggiavano vesti preziose non molto dissimili tra loro, grandi giacche di velluto ricamate e pantaloni gonfi che finivano sotto le cosce, calzettoni lunghi e mocassini con grandi fibbie; le dame, che gli dissero essere delle cortigiane  e poi gli spiegarono che erano donne dalle vedute sociali evolute, erano elegantissime con lunghe vesti di vari colori ricamate preziosamente attorno alle  ampie scollature e strette ai fianchi.
Fu colpito dai lunghi capelli biondi di alcune dame, nel Principato erano tutti di capelli scuri, e dall'acre odore che quasi tutti emanavano, un misto di sudore, sporco e varie essenze profumate segno che non erano usi lavarsi frequentemente forse memori della grande disavventura del diluvio universale.
Si fece dare un altro boccale di vin e si unì a uno dei tanti crocchi che si erano formati, si accorse di non capire la maggior parte di quello che dicevano, con grande arguzia studiò l'espressione dei suoi diretti interloquitori annuendo, sorridendo o restando serio secondo quanto interpretava. Passò da un crocchio all'altro e da un boccale all'altro, man mano che il vin scendeva più epiche diventavano le gesta dei suoi improbabili antenati, draghi, orchi ed altri mostri diventavano sempre più grandi e feroci mentre il numero dei nemici di volta in volta aumentava; nessuno comunque aveva resistito o avuto scampo di fronte al valore ed alla forza dei principi che lo avevano preceduto.
Qualcuno parlando delle crociate gli chiese se anche loro ne fossero stati partecipi, non aveva idea di cosa fossero le crociate ma visto che l'argomento sembrava importante, asserì che non meno di cento prodi cavalieri al comando di tale Silfredo erano partiti per liberare il Santo Sepolcro.
Ad un certo punto, per fortuna perchè taluni cominciavano ad esprimere dubbi sulle gloriose gesta elencate e di cui mai era stata diffusa notizia, entrarono alcuni notabili ed alcuni scrivani che si disposero lungo una lunga parete predisponendo l'occorrente per scrivere. La musica cessò, i giullari ed i giocolieri si ritirarono ed i notabili, a turno,  cominciarono a chiamare i cavalieri al desco degli scrivani.
Vi era quasi un irreale religioso silenzio nel salone, rotto solo dalle chiamate e dalle dichiarazioni che rilasciavano i nobili feudatari.
I titolari di feudo non erano molti, una ventina, gli altri erano nobili di vario titolo ma privi di un proprio feudo per cui le operazione procedettero velocemente.
Naturalmente anche il nostro fu chiamato presso uno scrivano, per combinazione lo stesso che aveva già incontrato al campo, alla richiesta declinò le proprie generalità con voce stentorea: Ulrico 11°, Principe per grazia di Dio e volontà del popolo di Roe Basse, così aveva sentito dire gli altri.
Lo scrivano scrisse i dati su una pergamena, sempre con quei caratteri aulici che tanto andavano di moda, poi, girato il foglio, chiese ad Ulrico di porre il sigillo del feudo sulla calda ceralacca e, se ne era capace, molti nobili non sapevano leggere e scrivere, di porre la sua firma. Impresse, il nostro, i simboli di Roe Basse su quel foglio ed atteso qualche secondo  che la ceralacca asciugasse, intinta la penna d'oca nel calamaio, siglò quel documento con il suo nome.
A quel punto lo scrivano, controllato che sigillo e firma fossero regolari, gli fece alzare la mano destra e pronunciò  alcune frasi con voce di rito, poi guardò diritto negli occhi Ulrico che interpretando la volontà dello scrivano annuì e disse sì, allora lo scrivano consegnò ad Ulrico una pergamena che arrotolò di fronte a lui sulla quale, sotto a delle scritte in latino si intravedeva il sigillo dell'imperatore di Germania. Ulrico pose il rotolo nella capiente tasca della giacca e salutati con deferenza notabili e scrivani  tornò a prendere del vin.

Finita la cerimonia ed usciti i notabili la festa riprese vigore; sulla lunga tavolata che era disposta al centro del salone furono poste delle vivande ed ognuno si servì di quanto gli piaceva mentre il vin scorreva a fiumi. Sazio di cibo e di vin, il nostro pensò giunto il momento di scoprire quali altre differenze, oltre al colore dei capelli, avessero le donne bionde rispetto alle altre. Generalmente era considerato un uomo di sani principi morali, mai vicino a casa o dove potesse esservi qualcuno che lo conosceva aveva offuscato tale immagine; ma si sa che l'occasione fa l'uomo ladro ed il vin ingurgitato di sicuro non collaborava a tenerlo lontano dalle tentazioni, si può dire che i freni inibitori se ne erano andati di pari passo con la sua sobrietà.
Molte erano le cortigiane graziose di viso e d'aspetto e, soprattutto, ben disponibili; purtroppo le cose belle piacciono a tutti ed ognuna di esse era attorniata, quasi assediata, da un nugolo di nobili di belle speranze. Optò quindi, voleva ormai andare a colpo sicuro, per una dama un pò rotondetta e di non più giovane età, anche se ancora evidentemente non completamente fuori corso e di sicura grande esperienza; stava sola e composta su di uno dei tanti divanetti che erano attorno al salone. Ne aveva scelto uno non troppo in luce, aveva un elegante abito di colore blu e sfoggiava  un radioso ed accattivante sorriso, tutto sommato i suoi lineamenti, pur velati da qualche piccola ruga, erano piacevoli e poi aveva, cosa molto importante, capelli biondi lunghi fino a metà schiena.
Prese due coppe rase di vin e le si avvicinò, offrì una delle coppe e cominciò a scambiare qualche convenevole; lei lo accolse con radioso sorriso accettando la coppa di vino.
Isotta, era il nome della dama, fu presto convinta all'incontro amoroso, era lì per quello, e guidò il nostro focoso cavaliere in una saletta attigua al cui centro era disposto un alto e grande  letto a baldacchino. Cominciarono subito con le effusioni ed in breve furono nudi con le vesti sparse sul pavimento, la dama tentò di salire sull'alto letto e nello sforzo le uscirono dei suoni dal posteriore; risero entrambi, poi lui pose le nerborute, callose e forti mani, use ad adoperare l'ascia dall'alba al tramonto, sotto le chiappe di lei e con possente spinta la issò sopra il baldacchino; con balzo da leone fu anch'egli sopra il letto e subito sopra di lei. Poi fu sotto di lei e poi ancora sopra e poi...
Rotolarono su quel giaciglio per ore, la dama emetteva di tanto in tanto delle rauche grida ed il nostro, pur se avvezzo al lavoro nei boschi, ansimava senza per questo fermarsi dal menar fendenti. Cantò il gallo ed una tremula luce si insinuò dall'ampia vetrata, la dama vinta nella singolar tenzone era caduta in un sonno catalettico e russava come una carica di cavalleria.
Ulrico, scese dal Talamo con estrema cautela, le gambe erano molli, e cominciò a raccogliere le sue vesti ed a rivestirsi senza far rumore alcuno, cavallerescamente non voleva forse disturbare il sonno della matrona o forse, più probabilmente, temeva gli fosse presentata la parcella. Gettato un bacio con la mano alla sua compagna di una notte uscì sempre in silenzio dalla stanza e si ritrovò nel grande salone delle cerimonie.
Molte torce e molti lumi si erano ormai spenti ma nella penombra vide uomini e donne discinti che giacevano a terra e su alcuni divanetti ed altri uomini e donne, nobili e cortigiane, dormivano a terra in un letto di vomito e tutti dormivano  di un sonno profondo.
Con qualche difficoltà riuscì a superare il tragitto senza urtare alcuno, sarebbe stato un peccato turbare i loro dolci sogni, e senza inzaccherarsi i mocassini; naturalmente al guardaroba non c'era nessuno per cui scavalcò il bancone e prelevò le sue cose, sul bancone vi era anche una splendida stola di volpe argentata e visto che non aveva avuto tempo per acquistare qualcosa per la sua signora prese anche quella.
Uscito nel grande cortile sbattè le palpebre offese dai primi raggi del sole e proseguì celermente verso il cancello, le guardie assonnate non lo degnarono di uno sguardo, solo un vecchio e grosso cane nero si avvicinò, lo annuso scodinzolando e provò a seguire i suoi passi frettolosi, poi desistette ed accucciatosi tornò anch'egli a dormire.
  Lungo le tortuose e deserte viuzze giunse al mercato, la sua squadra era già pronta a partire, non solo avevano venduta tutta la mercanzia ma anche due dei grossi carri con i buoi che li trainavano avevano cambiato proprietari. Bertrando aveva fatto smontare anche la tenda di rappresentanza ed assieme a scudo e suppellettili era stata anch'essa caricata.
Si tolse la giacca ed i mocassini, indosso gli stivali che erano più consoni a cavalcare e cinta la spada, che aveva portato in mano, salì con qualche incertezza, la dama aveva assolto al proprio compito con grande maestria, in arcione al suo destriero e dato il segnale di partenza si mise alla testa del convoglio.
Sui carri rimasti era stato caricato quanto acquistato e ritenuto utile, non molte cose invero, per cui i carri erano notevolmente più leggeri ed i buoi potevano procedere a passo più spedito.
  Mentre il suo popolo felice di come era andata la trasferta intonava canti e proseguiva allegramente, Ulrico, solo in testa al convoglio, era serio e taciturno; aveva anche un forte mal di testa e lo stomaco produceva dei sordi brontolii ma non voleva dare a vedere di non essere in perfetta forma e così cavalcava con aria impettita; stava anche pensando a come descrivere al meglio quanto avvenuto tacendo di certo sulla sua, pur piacevole, avventura erotica e sull'abbondanza delle libagioni.
Come si conviene per ogni maschio anch'egli avrebbe voluto raccontare l'avventura, magari arricchendola di ulteriore colore epico, di certo avrebbe sottratto qualche anno alla dama che era stata sua compagna; sapeva però che difficilmente la cosa non sarebbe stata divulgata nel Principato e la sua signora, Beatrice, non avrebbe di certo capito che il suo comportamento era dettato dalla ragion di stato.
Il sole era al culmine del suo cammino quando decisero di fare una sosta, Ulrico si era un pò ripreso e mangiato qualcosa si senti forte e sicuro, il mal di testa era finalmente sparito ed anche lo stomaco aveva smesso di fare le bizze. Raccontò in breve quello che aveva deciso di condividere con gli altri, magnificando l'accoglienza riservatagli, senza comunque entrare troppo nei dettagli.
Gli altri erano troppo felici di come erano andate le cose per voler sindacare quanto riportato, si accontentarono di quanto il Principe volle loro riferire e si rimisero in viaggio.
Viaggiavano molto spediti ed avevano percorso molti chilometri quando il cielo improvvisamente si oscurò preannunciando un temporale. Fulmini accecanti rischiaravano il cielo per brevi attimi  e tuoni fragorosi e possenti animavano l'aria percorsa anche da un forte vento, per cui notata una fattoria vi si diressero per chiedere ospitalità mentre scendevano le prime grosse gocce di pioggia.
I villici furono ben felici di ospitare qualcuno che non fosse venuto per depredarli, come succedeva spesso in quella ridente vallata, e misero loro a disposizione stalla e fienile riservando, come si conveniva, la loro camera da letto per il Principe.
Mentre alcuni dei nostri staccati i buoi li mettevano al coperto nella capiente stalla, gli altri preparavano al meglio i loro giacigli sulla paglia e sul fieno, poi  prepararono una ricca cena alla quale invitarono, naturalmente, anche i valsuganotti, avevano saputo che quella vallata si chiamava Valsugana, i quali portarono dei cesti con uva e dei grossi e succosi pomi.
Intanto il cielo aveva aperto le sue dighe ed una pioggia scrosciante inondava strade, campi e prati producendo un sommesso borbottio interrotto a tratti dall'ululare del vento la cui forza si era via via intensificata.
  Conoscevano i nostri i pon, così li chiamavano nella lingua del Principato, alcune piante crescevano spontanee attorno alle radure; rimasero però sorpresi di quanto erano grossi e di bell'aspetto quei frutti e di quanto erano dolci e succosi. Pur se gradevoli le loro mele selvatiche non avevano di certo lo stesso dolce sapore, erano molto più piccole e quasi sempre la buccia mostrava delle grosse deformità o grosse macchie.
  Così coloro che normalmente erano dediti alle coltivazioni chiesero lumi, seppero così che erano state ottenute attraverso anni ed anni di innesti ed esperimenti vari e chiesero se potevano averne qualche pianta. I villici non ebbero alcuna difficoltà, erano anche ben disposti dopo aver ben assaggiato le bevande che prudentemente i nostri avevano conservato per il ritorno, così all'alba del giorno seguente dopo aver ben spiegato come doveva essere effettuato un innesto sulle piante selvatiche, fornirono ai nostri dei rami per gli innesti e, per sicurezza, alcune giovani piante di varie qualità.
Salutati i contadini si riavviarono sotto un cielo tornato sereno e dopo poche ore si inerpicarono sulla lunga salita che aveva creato, causa il notevole peso dei carri, grandi problemi nella discesa dell'andata. Consumarono il frugale pasto senza fermarsi, ormai avrebbero voluto essere a casa, e ripassarono sotto alla città murata che avevano visto precedentemente; incontrarono villici ed armigeri ma nessuno li disturbò; d'altronde erano una compagnia abbastanza numerosa ed i cinque cavalieri armati che li scortavano scoraggiavano tanto le sparute bande di malavitosi che i piccoli gruppi di armigeri dal creare loro problemi.
Giunsero a notte fonda nel Principato, lasciarono carri e buoi in custodia agli accorsi e tutti, sfiniti, andarono a coricarsi.

Come era naturale il giorno successivo Ulrico andò a consultarsi col Druido, molte erano le cose che non aveva capito e voleva sapere, non c'era più il vin a sorreggerlo, specialmente cosa avesse firmato a nome del Principato ed eventualmente quali erano gli impegni a cui doveva far onore.
Il vecchio, onnisciente,  ascoltò attentamente il rapporto, poi si congratulò per l'ottima riuscita commerciale dell'iniziativa ed entrò nel merito delle numerose domande che gli venivano formulate.
Per prima cosa rese edotto Ulrico su cosa fossero le crociate, per il popolicchio erano state fatte passare per guerre di religione ma, pur se benedette da papi ed antipapi, erano solo guerre di espansione per il possesso di terre e di potere e comunque erano state un grande fallimento; naturalmente gli dovette anche spiegare cosa era il Santo Sepolcro e cosa avrebbe dovuto rappresentare Gerusalemme.
Poi, cercando di usare toni e linguaggio comprensibili, parlò dello sfacelo dell'impero romano e del prossimo profetizzabile sfacelo anche dell'impero d'oriente; parlò del sacro romano impero Carolingio e della sua ingloriosa fine e venne perciò a parlare di quanto avvenuto al nostro Principe in quella grande città con un enorme castello.
Spiegò anche che ormai il Cristianesimo aveva allungato i suoi possenti tentacoli su tutto quello che era stato l'impero romano, quasi dappertutto era considerato religione di stato, ma che viveva un momento difficile tra papi, antipapi, ereditarietà del papato ed altre guerre di potere al suo interno, per cui la Chiesa aveva avuto bisogno, come sempre, di schierarsi con i potenti di turno e per essere sicura di mantenere la sua parte di predominio sul popolo  aveva dato l'avvio ad un accordo con il re o imperatore di Germania, naturalmente fervente cristiano,  per l'istituzione del Sacro Romano Impero germanico.
Per questo il raduno di nobili feudatari, al quale aveva suo malgrado partecipato, era stato convocato, perchè costoro facessero atto di vassallaggio nei confronti di costui.
    Rise di gusto, il Druido, della apprensione di Ulrico per il documento firmato, poi, come si farebbe con un bambino di sei anni, tentò di spiegare al nostro la situazione in essere e perchè il documento da lui firmato non avrebbe avuto alcuna conseguenza. Pur se di fatto il Principato esisteva, non vi era naturalmente alcuna ufficializzazione, per cui difficilmente i notabili Germanici avrebbero saputo dove rintraccialo e ad un più attento esame avrebbero escluso il documento firmato; era anche ovvio che il territorio che avrebbe successivamente costituito e formato la Provincia di Belluno, visto che la principale via di comunicazione e di commercio con il resto del mondo era il Piave, sarebbe stata assorbita dalla nascente Repubblica di Venezia dove, al momento,  vi era ancora il delegato Bizantino che comunque era già chiamato Doge.
Tranquillizzato e sollevato da quanto sentito dal Druido, Ulrico si congedò, poi mentre tornava a casa si ricordò della stola di volpe e passò per il magazzino merci, desolatamente vuoto,  dove qualcuno l'aveva messa da parte senza sapere cosa e di chi fosse.
Beatrice, anche se non sapeva dove e quando l'avrebbe sfoggiata,  fu molto contenta del prezioso regalo, naturalmente lui le disse di averla acquistata per lei, e soddisfatte le sue, legittime, ansie, rinunciò a fare troppe domande al suo sposo convinta dal regalo che lui avesse pensato sempre a lei.

Il post Medioevo

Le fortune commerciali del Principato avevano portato negli anni a cambiare un pò il modo di vivere, erano state costruite case più grandi e comode e tutti godevano di un certo benessere.
Era anche stato costruita una osteria con annessa bottega di generi alimentari, all'osteria la gente passava il tempo libero giocando a carte, a morra e a bocce e bevendo quanto passava il convento; il luogo giusto per quella comunità per socializzare.
Con questo benessere erano purtroppo arrivati anche mercanti e qualche truffatore con gli operatori del clero, sovente passavano infatti per le viuzze del Principato frati e preti; mentre i frati si accontentavano di quello che la gente riteneva di donare loro i preti erano molto più invadenti e quasi pretendevano cose di valore lanciando anatemi e minacciando castighi divini.
Lanfranco 17° era diventato Principe, nel frattempo, di mestiere faceva il fabbro ed era anche molto abile nella sua arte; il ferro che arrivava dalla Val Imperina prendeva vita nelle fiamme della sua fucina ed opportunamente lavorato con il maglio azionato dall'acqua del Gresal  e dai suoi grossi martelli diventava cosa utile.
Il popolo era stanco della invadenza dei preti per cui Lanfranco si recò dal Druido per chiedere  lumi su come comportarsi con costoro. L'onnisciente era preoccupato per suo conto, aveva avuto notizie che la Chiesa, nella persona del papa, aveva  istituito un particolare tribunale per porre ordine all'interno della Chiesa;  lo avevano chiamato la Santa Inquisizione e tra i suoi compiti vi era quello di combattere l'eresia.
  La definizione di eretico lasciava molto spazio alle interpretazioni, di fatto tutto ciò che non era in linea con quanto proclamato da Roma era eresia e lasciava poi ampio spazio alle interpretazioni, sempre e comunque restrittive, degli incaricati ed alle vendette personali.
Era anche preoccupato perchè la sua comoda grotta dava segni di decadimento, le infiltrazioni avevano già provocato dei piccoli smottamenti, tanto che la bissa se n'era andata e si era trovato un altro introvabile rifugio. Ascoltò con pazienza le lamentele di Lanfranco; ponderò a lungo la risposta cercando nella sua mente la soluzione migliore al nuovo che avanzava e poi, finalmente, trovò la soluzione.
Era ormai evidente che non essere cristiano battezzato poteva portare al rogo; fin qui i vari preti e frati erano stati tutti tratti in inganno dal linguaggio che i nostri avevano imparato dagli zattieri e che nel tempo avevano abbellito ed arricchito con gli aggettivi dell'evoluzione, quelle frequenti invocazioni non avrebbero avuto gran senso, secondo loro naturalmente, se non ci fosse stato un credo.
A dire il vero nelle loro visite avevano un pò criticato l'uso di quel linguaggio definendolo, ma nessuno aveva capito cosa volesse dire, blasfemo; riservandosi comunque dal tollerarlo o anche suggerirlo in casi specifici come quando, ad esempio, uno si trovasse a gestire un mulo recalcitrante che con l'uso di quelle invocazioni sarebbe diventato immediatamente docile, specie se magari suffragate da una buona dose di bastonate.
L'illuminato Druido suggerì al Principe di far battezzare tutto il popolo, meglio dai frati che erano più condiscendenti, e di adeguarsi al nuovo corso della storia.
Convocò quindi Lanfranco tutto il popolo e comunicò la sua decisione; qualcuno recalcitrava ma considerato il probabile castigo e punizione alla fine furono tutti d'accordo.
Chiamarono quindi un frate disponibile e che si faceva gli affari suoi, si battezzarono, battezzarono i fanciulli   e poi si fecero spiegare i temi della religione nel caso fossero stati coinvolti nei tribunali dell'Inquisizione. Per chi aveva sempre vissuto con le leggi della natura era difficile comprendere quei concetti, cosa voleva dire eterno se tutto ciò che conoscevano aveva un inizio ed una fine, come poteva diventare eterna una cosa che aveva avuto inizio o essi, e tutto ciò che li circondava, erano esistiti prima di nascere e allora perchè questa pausa intermedia?
    Sembrava comunque che il cavallo di battaglia della religione fossero il castigo ed il premio per come era stata condotta la propria vita, se non ti eri comportato assecondando quanto insegnava il clero andavi all'inferno a bruciare nelle fiamme per l'eternità, se invece ti eri inchinato ai comandamenti della Chiesa e dei potenti andavi in paradiso dove il clima era decisamente migliore e dove avresti passato l'eternità cantando le lodi del Signore.
Qualcuno si pose delle domande su quale fosse il reale castigo visto che magari dopo un paio di millenni uno poteva anche abituarsi alle scottature, poi loro avevano anche gli unguenti del Druido, ma a cantare giorno e notte, senza neppure una bira, sembrava molto più punitivo e poi c'era anche il concetto di equità; coloro che erano esistiti 4/5000 anni prima di loro avevano avuto più punizione o premio dei contemporanei.
  Perplessità che il puro ragionamento non poteva di certo dissipare, anche perchè, tra le altre cose, visto che tutto ciò che rendeva piacevole la vita sembrava essere peccato con particolare accanimento ai peccati sessuali, vi erano dubbi sul voto di castità a cui per essere preti si doveva sottostare; le pur rade notizie parlavano di concubine di papi e vescovi e di qualche  loro figlio illegittimo, il comportamento dei preti poi nei rapporti con l'altro sesso non erano sempre adamantini per cui si coniò l'assioma che la vantata castità fosse una virtù che i preti si tramandavano di padre in figlio. Si diffondevano sempre di più le notizie delle atrocità commesse dagli inquisitori papali; torture, vessazioni ed infine rogo.
Il Druido era ormai molto vecchio e molto  stanco, voleva concludere i suoi giorni in tranquillità e naturalmente senza fiamme purificatrici; per cui raccolse le sue poche cose, salutò Lanfranco e poche altre persone, odiava gli adii, passò dall'Anguana che anche aveva preparato i bagagli ed entrambi sparirono verso luoghi più ameni e sicuri.
    Lanfranco, che si rendeva conto del grande rischio che il suo profeta correva, non tentò di dissuaderlo, pur se sentiva che ora doveva fare senza la sua illuminata guida; vedeva anche comunque che ormai erano in grado di gestire la comunità da soli, per cui armato di buona volontà  si dispose ad assolvere al meglio il suo pur gravoso compito.
Si preannunciavano grossi avvenimenti in tutta Europa, la Serenissima Repubblica di Venezia aveva allargato i suoi confini e noi ne facevamo ormai parte ufficialmente, in Germania c'era la rivolta protestante di Lutero ed in Italia vi era un grande fermento innovativo che sarebbe poi stato chiamato Rinascimento. Pittori, scultori e poeti, soprattutto in centro Italia, stavano costruendo una Italia nuova che sarebbe stata la culla del sapere e dell'arte mondiale.
Principe era ora Giovenale 23°, boscaiolo di mestiere, detto il magnifico, appassionato di arte e cultura cercò di dare impulso alla fantasia creativa nel Principato.
Pittori non ve n'erano, solo qualche imbianchino, scultori ancora meno, ma all'osteria stazionava tutti i giorni e quasi sempre fino alla chiusura tale Massimiano da Budolere, per suo dire cacciatore e già autore della ancora famosa massima: na olta cor al can e na olta cor al gevero.
Era lo stereotipo dell'artista, capelli lunghi e disordinati, barba incolta e vestiva disordinatamente mettendo quello che gli capitava sotto mano, girava sempre con il suo cane che lui diceva essere da caccia, gli altri a dire il vero lo definivano un cane da polenta, cane altrettanto in disordine con un pelo lungo ed arruffato.
A lui quindi si rivolse il Magnifico; gli chiese di coniare una poesia che dimostrasse l'evoluzione culturale della lingua madre del Principato nel difficile passaggio dal latino, che nessuno nel Principato conosceva, al volgare. Si informò Massimiano, tra una bira ed un'altra,  di cosa avveniva altrove ma il concetto di donna angelo, nel suo assoluto pragmatismo, gli era sconosciuto; poi improvvisamente, come avviene a tutti i geni, arrivò la luce.
Era un caldo ed afoso pomeriggio d'estate e lui stava metabolizzando con fatica le bevande ingurgitate all'osteria sotto la fresca ombra di un gelso, con il suo cane che sonnecchiava al fianco, in un affannoso e tormentato dormiveglia, quando una sfacciata lumaca, nel suo lento incedere, gli lambì con la schifosa schiuma il viso. Disturbato dal solletico, con una manata allontanò l'invertebrato, poi, curioso, la raccolse e dopo un pò la lumaca, passata la paura, uscì dal suo guscio ed espose le proprie antenne.
    Fu l'imput che gli mancava, la grazia della Musa Euterpe entrò in lui e si impossessò della sua mente, i versi gli uscirono dalla bocca e dal cuore quasi con violenza,  e fu poema; ancora oggi quella poesia è parte predominante della cultura Roebassiana; la suprema ode così recita:

bori, bori fora,
con quatro corni fora,
un a mi, un a ti,
un al vecio che te a borì
e un al podestà
che se no al se picherà.

Soddisfatto del frutto delle sue elucubrazioni, il Vate tornò, con naturalmente il cane al seguito, all'osteria che non era neppure troppo lontana dove declinò per i presenti la sua ode che ottenne il pieno consenso da tutti gli astanti; gli offrirono alcuni boccali di bira che lui bevve quasi con avidità e, dopo aver messo per iscritto i versi, tornò al suo gelso. Si sa che il genio è una cosa che non si può spiegare; la vena poetica ormai aveva fatto presa sul nostro che, dopo aver ruttato più volte per effetto della bira, si rimise a pensare a qualche altra ode, stava pisolando immerso nei suoi pensieri, quando passò una leggiadra fanciulla; i passi pur leggeri della adolescente sulla ghiaia lo riportarono al presente, la ragazza era molto bella, lui la chiamò e le chiese come si chiamasse; Beta, rispose lei e subito il poeta, ancora ispirato dalla divina musa della poesia, coniò altri sommi versi in rima baciata:

Beta, al to moros te speta
inthima ala riveta
e al sona la trombeta;

poi, mentre la fanciulla si allontanava, mise nero su bianco anche la sua ultima fatica e  si riaddormentò soddisfatto.
Il giorno dopo Massimiano era al suo posto all'osteria; puntuale come il sorgere del sole, si intrattenne con gli altri avventori declamando i suoi versi più volte, poi, quando il sole era ormai al suo apice, gli venne fame; è pur vero che la poesia nutre lo spirito ma la polenta è tutta n'altra cosa. Pensava proprio alla polenta mentre si avviava verso casa, quando, quasi senza volerlo e senza sforzo alcuno compose la più divina delle sue opere:

la polenta la e na tosa,
chi la varda se innamora,
chi la magna se contenta,
benedeta la polenta.

Stremato dallo sforzo giunse finalmente a casa e consumate in fretta e furia un paio di fette della bionda pietanza si coricò e dormì fino al giorno seguente.
Uscì tardi la mattina seguente; all'osteria erano anche preoccupati di non averlo ancora visto, su uno spiazzo dei bambini giocavano alla lipa, stavano litigando per chi doveva iniziare il gioco e lui, ormai pervaso dal sacro furore ispiratore recitò, stavolta in Italico dialetto, un'ode che sarebbe anche essa stata leggenda e che ancora oggi è spesso citata, copia dell'originale scrittura è presente in tutte le più qualificate biblioteche del mondo
ambarabà, cicci, coccò, tre civette, ecc. ecc.
Dopo una lunga pausa ristoratrice all'osteria  il sommo poeta fece visita a Giovenale e gli presentò i suoi lavori; Giovenale che ne fu oltremodo soddisfatto, pensò anche di insignire Massimiano con qualche onorificenza che il poeta rifiutò con grande umiltà, poi  tornò all'osteria e della sua propensione letteraria si ebbero sempre meno notizie.
Il magnifico dette il giusto risalto alle odi del sommo Vate, diffondendole in ogni dove possibile e le inserì   di prepotenza nei programmi scolastici del Principato. Poi trascrisse le rime su pergamena ed andò a posarle con tutta la documentazione nel vecchio baule di quercia che era stato del Druido; la grotta, che era stata per secoli abitazione e rifugio del sommo maestro e della bissa era ora in un grave stato di rischio di frana, Giovenale puntellò alla belle meglio l'insicuro soffitto ma non osò spostare le vestigia del passato.
Sembra che questi siano stati gli ultimi documenti inseriti nel baule, anche loro comunque rovinati dall'umidità e dai roditori; forse nessuno riportò gli avvenimenti successivi o forse nessuno osò avventurarsi ancora nella grotta sempre più pericolante ponendo eventuali storiche testimonianze in altro luogo; per arrivare ai giorni nostri con la storia del Principato dobbiamo per forza avvalerci delle testimonianze raccolte negli anni e tramandate verbalmente tra le generazioni che si succedettero.
Il tempo continuava a scorrere lentamente nel Principato senza particolari avvenimenti; anche se ora i contatti con il mondo esterno erano più frequenti l'isola felice determinata dalle due strade principali garantiva ancora un pò di isolamento, quasi di intimità; il popolo viveva tranquillo e felice senza mai essere coinvolte nelle continue guerre che avvenivano a cadenza quasi ventennale e di conseguenza senza mai essere toccato dalle ricorrenti pestilenze.
Anche i Dazieri Veneziani raramente arrivavano nel Principato per cui nessuno pagava tasse o balzelli di varia origine tranne qualche obolo alla Chiesa che comunque non aveva luoghi di culto nelle immediate vicinanze ed i grassi preti erano già sazi di quanto racimolavano altrove e più comodamente.
Avevano sentito parlare di una grande rivoluzione che aveva sconvolto gli equilibri Europei; a loro non interessava poi molto visto come andavano le cose; avevano sostituito il sork e le cartufole con il granturco e le patate che erano arrivate dal nuovo mondo e che erano più produttive.
  Il nuovo Principe era  Acheronte  32°, commerciante di bestiame, detto il ladro.


L'era moderna

Sarà stato circa il 1800 ed era una limpida mattina d'autunno, uno strano rumore, quasi un sommesso tuono, aveva fatto accorrere tutta la popolazione sulla strada che da Poian porta al guado della pantegana, una lunghissima fila di soldati preceduta da alcuni cavalieri con stendardi ed insegne e da una fila di tamburini stava transitando per il centro del borgo diretta appunto al guado.
Marciavano con il passo di chi deve fare molta strada, tutti belli inquadrati in vari reparti con elaborate divise diverse; ogni reparto staccato dall'altro con davanti i propri ufficiali a cavallo e gli stendardi ed alcuni tamburini che davano il tempo di marcia. Per tutto il giorno transitarono i fanti e si fermarono solo quando ormai era buio, senza allestire un campo accesero dei fuochi e si adattarono in qualche modo, dormendo per terra, e ricominciarono la loro marcia all'alba.
Mentre i fanti si inerpicavano verso Col del vin e sparivano dalla vista cominciarono a passare le artiglierie; cannoni grandi e piccoli di vari calibri e forme, dotati di ruote e trainati da grossi cavalli sul primo dei quali montavano auriga impettiti. Anche gli artiglieri erano suddivisi in vari reparti, anch'essi con divise diverse, ed anch'essi erano preceduti dai propri ufficiali e da cavalieri che sfoggiavano nelle bandiere le insegne dei vari reggimenti.
Dietro agli artiglieri arrivarono alcuni reparti di cavalleria su possenti e nervosi cavalli, anche loro suddivisi in reparti con gli ufficiali davanti ed anche loro sfoggiavano divise diverse per reparto, poi c'erano le salmerie e le donne di facili costumi per le esigenze dei militi, tutti su grandi carri e poi, quasi era ormai buio, la retroguardia composta da militi senza particolari divise, molti erano vestiti normalmente,  e che sulle bandiere al posto del blu avevano il colore verde.
Parlavano, questi ultimi, che a differenza di tutti gli altri procedevano con grande disordine, un dialetto comprensibile anche dai nostri ed alcuni di essi, approfittando che da li a poco ci sarebbe stata la sosta notturna, si erano anche recati all'osteria dove furono prontamente interrogati su quell'inusitato avvenimento. Dissero di essere della Repubblica Cisalpina, che si erano aggregati alle truppe del generale Napoleone e che si stavano recando a Udine dove, dopo le recenti sconfitte da parte dell'Austria, si sarebbe stipulato un importante trattato.
Il giorno dopo la vita tornò al suo normale stato di quasi apatia, qualcuno raccolse il frutto lasciato dai cavalli lungo la strada per farne dell'ottimo concime e la cosa finì come era cominciata. Seppero poi che in base a quel trattato non erano più Veneti ma erano diventati Austriaci.
La cosa non li sconvolse più di tanto, visto che direttamente non erano stati coinvolti in alcunchè, il Piave continuava a scorrere verso Venezia e tutto ciò che li riguardava scorreva con il Piave. Di fatto nel giro di quindici anni, scoprirono poi, erano diventati di volta in volta Veneti, Austriaci, Cisalpini e poi ancora Austriaci con l'unico risultato di accese discussioni senza conseguenze in tarda serata all'osteria.

Con lo sconvolgente ciclone Napoleonico che aveva devastato l'Europa si poteva considerare definitivamente conclusa, oltre che della millenaria Repubblica Veneta, l'epoca Feudale; già prima vi era stato l'avvento delle varie monarchie ma i feudatari avevano conservato grandi poteri nei terreni loro assoggettati, naturalmente nobili e Vescovi conservarono in immutata forma il loro ascendete sul popolo che continuarono a sfruttare tranquillamente.
Vi furono anche guerre e battaglie nel resto della penisola; il periodo venne definito Risorgimento, ma i nostri non ebbero coinvolgimento alcuno, troppo decentrati dai campi di battaglia e lontani da ogni coinvolgimento politico o patriottico vivevano tranquillamente anche con gli austriaci  la cui unica presenza era data da qualche gendarme con grossi baffoni impomatati che saltuariamente transitava per il Principato.
Un bel giorno qualcuno cominciò a parlare di un referendum per decidere se volevamo essere Italiani; ne parlarono all'osteria tra un boccale e l'altro ma visto che fin qui erano stati bene non capivano a cosa sarebbe servito o a cosa per loro sarebbe stato utile, decisero in massa di disertare le urne.
Probabilmente, anzi è certo, il loro voto non avrebbe di certo influito su quello che dissero essere stato un plebiscito, ma almeno potevano dire in seguito di essere stati contrari a tutte le cose brutte che avvennero e che risultarono essere per loro una fregatura.
  La conseguenza immediata fu un censimento della popolazione; ora esistevano, con nome cognome e indirizzo, anche per le autorità; strani gendarmi armati, sempre in coppia, cominciarono a transitare regolarmente; parlavano strani dialetti spesso incomprensibili ed usavano un tono di voce troppo alto, almeno per le abitudini dei nostri, ed erano anche molto più invadenti dei gendarmi austriaci che in tutti i casi si comportavano con riservatezza e, visto che anche la maggior parte di loro era gente di montagna con le stesse abitudini e lo stesso modo di vivere, si capivano quasi meglio.
La loro divisa era composta da una lunga giacca azzurra chiusa sul davanti da grossi bottoni fino al collo attorno al quale vi era una specie di cravatta nera, pantaloni più chiari, di colore beige, gonfi fino al ginocchio, stivaloni, mantella azzura molto ampia per coprire l'eventuale zaino.
Erano armati di un lungo fucile che portavano a tracolla e di un revolver; le bandoliera che sorreggeva il fodero del revolver e la bandoliera delle giberne con le munizioni si incrociavano sul petto.
A dire il vero la divisa non era molto dissimile da quella dei soldati sabaudi che talvolta vedevano nei mercati, particolare curiosità destava invece il loro cappello; lo  avevano descritto i vecchi che avevano visto le truppe Francesi che lo avevano in dotazione in alcuni reparti, ma pensavano che ormai fosse definitivamente superato visto che non era di alcuna comodità.
Il cappello  era a due punte, bordato con gallone nero di seta. Recava sul davanti la ganza, che consisteva in una sorta di gallone d'argento disposto a 'V' agganciato in alto sull'orlo del cappello e fissato in basso da un bottone sopra l'occhio sinistro. In alto, sotto la ganza, c'era la coccarda, un nastro azzurro legato con nodo a fiore.
Altre novità furono l'imposizione di tasse e gabelle che solerti funzionari, sovente accompagnati dai gendarmi, non mancavano di prelevare a loro discernimento e la leva militare obbligatoria, così un popolo che per millenni era vissuto in modo assolutamente pacifico nel rispetto del proprio prossimo, si trovò all'improvviso a  vedere i propri  figli ventenni istruiti all'uso delle armi ed alla violenza.
Alcuni di quei giovani, ingenui e bonaccioni, furono quasi subito utilizzati dal reale governo per le guerre coloniali e spediti nel corno d'Africa a fare la guerra a gente che non gli aveva fatto niente. Ci furono così i primi lutti senza senso, se non quello delle mire espansionistiche di un re che non era il loro e che non potevano riconoscere,  per una popolazione il cui benessere era messo a dura prova dai continui e forzati prelievi fiscali.
Non ci è dato sapere chi fosse Principe in quel periodo, come detto prima non furono rinvenuti altri documenti; si suppone che il titolo di Principe sia stato abbandonato con l'avvento del Regno d'Italia pur se, naturalmente, continuarono ad eleggere un capopopolo.
Poi ci fu anche la tragedia del primo grave terremoto dell'Alpago che provocò danni gravissimi, alcune case crollarono, altre furono lesionate e rese inabitabili; crollarono anche le stalle uccidendo quasi tutto il bestiame, il paese era nel più totale sconforto ed il benessere di un tempo divenne  ormai solo un ricordo. Arrivarono da lontano alcune persone ben vestite sulle loro auto e scortate da armigeri, tutti loro dissero di essere rappresentanti del governo, controllarono la situazione e fecero dei gran bei discorsi; il ritornello più frequente di tutti costoro era già allora: vi siamo vicini, non vi lasceremo soli. Poi risalirono sulle loro automobili, con autista in livrea, se ne andarono e la cosa finì lì.
Malgrado la dura batosta subita in Eritrea, le guerre coloniali continuavano; ora c'era anche la Libia (Cirenaica e Tripolitania si chiamavano allora) e naturalmente ci volevano nuovi soldati.
Dopo il terremoto, disgustati dalle vane e mai mantenute promesse del governo centrale, in molti avevano deciso, a dire il vero ne erano costretti, di cercare fortuna altrove e molti erano partiti sulle navi dirette al nuovo mondo, spopolando di fatto il paese. I pochi rimasti si rimboccarono le maniche, ma mentre lentamente cercavano di ricostruire quanto miseramente crollato ecco che l'Italia dichiara guerra agli imperi Austroungarico e Germanico.

Stavolta il conflitto li toccò direttamente; truppe armate erano dislocate in ogni dove, passavano quasi giornalmente soldati diretti al fronte; i primi passavano cantando e pieni di entusiasmo per quella che doveva essere la guerra che avrebbe completato nei sacri confini, così almeno la raccontavano, la Nazione Italia. Poi i soldati che passavano divennero sempre più mesti, sembrava andassero ad un funerale, forse già sapevano che il funerale poteva essere il loro.
Arrivarono poi gli austriaci, i vecchi che spesso recitavano: si stava meglio quando si stava peggio, sperarono che la cosa fosse definitiva, ma poi gli Italiani con i loro alleati  ebbero il sopravvento e sconfissero l'Austria Ungheria, così tornarono anche da noi e si rividero le coppie di  carabinieri, ora dotati di biciclette, transitare per le vie del paese.
Oltre ad aver portato pulci e pidocchi ed alla conta dei morti il risultato di questa guerra fu la gran miseria che lasciò dietro di essa, i raccolti già miseri, visto che mancava la mano d'opera impegnata al fronte, erano stati per buona parte depredati o distrutti e la gente pativa la fame.
L'osteria era crollata a seguito del terremoto ma la gente continuava a riunirsi in un ambiente di fortuna costruito in qualche modo, giocavano a carte e parlavano della recente brutta avventura della guerra; sul tardi intonavano anche i canti che avevano imparato nelle trincee; tra i tanti racconti ve n'era uno che destava almeno delle perplessità, alcuni si chiedevano come mai i preti della stessa confessione, che predicavano i comandamenti tra cui non uccidere, fossero usi benedire le armi degli opposti schieramenti prima della battaglia, forse anche questo era uno dei tanti misteri della fede.
Nei Paluch, presso il boion de Vatai,  era stato allestito, durò pochi mesi, un campo di prigionieri austriaci e l'esercito forniva loro alimenti e quanto altro. Non si sa ad opera di chi, ma alcuni di quei preziosi viveri furono dirottati, nottetempo, in luogo sicuro sotto le Vignole in un capiente rifugio ben mimetizzato.
Capopopolo in quel momento era Carlo da boscade; viveva in una baracca di legno costruita sopra il Sason dei Biasi in mezzo al bosco, sposato con Clementina ed allora aveva due figli. Era un tipo mite e ponderoso, con due enormi baffoni come si usava allora e fumava la pipa, aveva sempre nel taschino del gilet delle caramelle che amava distribuire ai bambini i quali, grati, lo adoravano; aveva anche lui combattuto la guerra sulle montagne, prima era anche stato in Libia, ed aveva avuto dei problemi di congelamento alle gambe.
Riusciva comunque a camminare senza grossi problemi e lavorava alle fornaci dove venivano prodotti i mattoni. Era naturale che quanto razziato al campo dei prigionieri fosse da lui custodito, giornalmente andava a controllare che nessuno avesse scoperto il nascondiglio o che fosse stato trafugato qualcosa senza autorizzazione. Un giorno si accorse che uno dei grossi sacchi di zucchero era stato strappato e che mancava un notevole quantitativo di quanto conteneva. Decise quindi di porsi a guardia del bene comune anche la notte, per cui, attrezzatosi, si dispose nel rifugio con il lungo fucile che aveva conservato dalla sua avventura militare.
Fu grande la sua sorpresa quando, destato da un rumore dal dormiveglia, vide l'enorme bissa che leccava con ingordigia  lo zucchero; aveva sentito nei racconti dei vecchi nelle fredde serate attorno al fuoco parlare del nume protettore del Principato, ma mai si sarebbe aspettato di avere l'onore di vederla di persona. L'enorme rettile, senza smettere di leccare lo zucchero, lo guardò con i grandi occhi dolci e languidi, poi se ne tornò sazio al suo rifugio. Almeno così lui me la raccontava quando ero bambino.
La notizia dell'apparizione della bissa diffuse nel paese un sentimento di cauto ottimismo; se era tornata a farsi vedere forse sarebbero tornati i tempi buoni e finalmente avrebbero avuto la possibilità di nutrire  regolarmente i loro figli, forti di questa convinzione ripartirono con rinnovato vigore alla ricostruzione di Roe Basse; tornò l'osteria che era crollata, con annesso negozio di alimentari e stavolta completata da una  sala da ballo dove saltuariamente una compagnia di guitti locali si esibiva in performance teatrali. Di fronte all'osteria furono anche costruiti due campi da bocce; poi fu aperta anche un'ulteriore attività di vendita di pane e vino nei pressi di piazza Santa Barbara e fu costruita e consacrata anche la chiesetta santuario dedicata a una qualche Madonna
C'erano dei grossi sconvolgimenti nelle città ed in alcune aree d'Italia, loro prudentemente e saggiamente si tennero fuori, almeno all'inizio, pur se i ragazzi di leva erano stati spediti ancora a fare guerre coloniali o erano stati mandati, alcuni, anche a combattere in Spagna.

Mentre sembrava che comunque  tutto potesse  andare per il meglio, compatibilmente per gli standard di allora, arrivò  la seconda e ben più terrificante scossa di terremoto dell'Alpago; ancora una volta molte case furono distrutte; resistettero, pur con qualche trascurabile lesione, solo  quelle di costruzione più recente dove nella costruzione era stato usato anche il cemento.
Anche stavolta arrivò gente con grandi automobili e con vestiti alla moda, molti di loro indossavano delle divise; tutti dissero: vi siamo vicini, non vi lasceremo soli, poi risaliti sulle loro lucide automobili, con autisti in livrea, ripartirono per la capitale e la cosa finì lì ancora una volta.
Le famiglie allora erano molto numerose ma quasi per tutti era difficile combinare il pranzo con la cena; molti ragazzi andarono a lavorare solo per sopravvivere nelle campagne produttive che erano comunque lontane, le ragazze andavano a fare le serve o le balie, in qualche modo sopravissero e cominciarono a ricostruire ancora una volta.
Cominciò la seconda guerra mondiale; i giovani di leva furono inviati ai vari fronti ed alcuni di loro non ne ritornarono; poi un armistizio che era una resa senza condizioni e la guerra fratricida.
I nostri nuovi alleati non lesinavano i bombardamenti anche su obbiettivi non militari e, ormai a guerra finita, dal rientro dai bombardamenti in Germania, per lasciarci un ricordo indelebile della loro presenza sganciavano le bombe rimaste, che sarebbero state pericolose all'atterraggio, dove capitava. Una di queste cadde anche a Roe Basse, più precisamente a Boscade, il boato provocò grande spavento e la rottura di tutti i vetri ancora integri delle abitazioni; per fortuna e per caso non vi furono vittime.
Finalmente era finita; pian piano si tornava alla normalità, ma ai giovani di ogni età non bastava più lavorare per il solo pane, tutti loro avevano delle giuste ambizioni, volevano costruire la loro casa, mettere su famiglia ed offrire una vita migliore ai figli, per cui quasi tutti emigrarono verso paesi che offrivano lavoro e reddito.
Non fu una cosa indolore, molti di essi furono vittime di un lavoro senza sicurezze e molti furono colpiti da gravi malattie, soprattutto polmonari, dal  lavoro in miniere e gallerie.
Poi un'altra immane tragedia; il Vajont e poi quasi subito ancora l'alluvione. Arrivarono stavolta grandi aiuti da tutto il mondo, in poco tempo Longarone resuscitò e contributi ed agevolazioni fiscali fecero sì che alcune grosse ditte si insediassero in Provincia dando lavoro a quanti erano ancora presenti sul territorio e ai numerosi che rientravano dall'estero.
Alcuni dei nostri tornarono a Roe Basse, alcuni degli altri invece preferirono costruire le proprie abitazioni in luoghi giudicati più comodi, frequentavano comunque ancora, quasi tutti loro, l'osteria.
La vita a Roe Basse riprese con rinnovata lena, tutti i sabati sera si ballava all'osteria ed alla sagra del paese si ballava anche sul codolà di fronte al locale che vendeva vino e pane. La verve goliardica non si era mai comunque del tutto spenta nel paese, personaggi, che meriterebbero un libro ognuno di essi, continuarono a prendere la vita senza troppa serietà vivendo ogni momento da protagonisti.
Fu uno di essi, Bele, che rinverdì la storia della bissa. Cacciatore, pescatore, bracconiere, Bele era un pò tutto di questo, abile ammaestratore di cani da caccia conosceva a fondo le abitudini della selvaggina e cacciava e pescava senza fatica alcuna con ottimi risultati; era quasi senza denti ed amava dire di averli persi a forza di ridere.
Bene, un giorno stava facendo una striscia di cenere, come tutti gli anni, tra il Boion de Vatai ed il Gresal  per catturare le bisate (anguille di fiume) in amore che sceglievano quel percorso, con l'erba inumidita dalla rugiada notturna, per cercare la compagna. Le bisate  quando entravano nelle cenere si impegolavano e non riuscivano più a proseguire  diventando facili prede. Notò delle grandi scie sull'erba alta che, secondo lui, non potevano essere provocate che da un grosso serpente.
Era di casa all'osteria e tra una partita di briscola e l'altra raccontò quanto aveva visto con dovizia di particolari; nessuno voleva credergli ma tutti sapevano dell'esistenza della bissa anche se era parecchio che non si avevano sue notizie.
Dopo pochi giorni giunse la conferma che il rettile si era destato ed era in circolazione quando Luigino lo incrociò sulla riva de Poian che stava attraversando la strada, spaventato e sorpreso il nostro per schivare l'animale aveva sterzato prontamente il proprio camioncino carico di tubi e mattoni, faceva il muratore/chitarrista, finendo sulla scarpata e rotolando lungo essa fino alla fine con tubi e mattoni che, con rumore assordante, rotolavano assieme a lui.
I soccorritori, visto che non si era fatto niente di grave, lo portarono all'osteria dove anch'egli era di casa. Ancora scosso dall'avventura, raccontò ai presenti quanto gli era avvenuto mentre metabolizzava un paio di Vecchia Romagna  per ritemprarsi.

La cosa fu presa come un segno del destino; il Principato doveva essere nuovamente costituito.
Tra l'altro in quel periodo uno smottamento nei pressi della vecchia grotta del Druido, crollata ed occlusa ancora nel primo terremoto, aveva portato alla luce l'antico baule con i documenti; purtroppo, come già detto, chi lo estrasse non ebbe la cura necessaria, il fondo ormai marcio si staccò ed alcune pergamene andarono così perse nel fango, altre si dissolsero al contatto con l'aria ma alcune, pur se non in ottimo stato, furono consegnate al Principe in carica che nel frattempo era stato finalmente eletto; era stato eletto Giulio, 1° dell'età contemporanea, Principe di Roe Basse e Boscade detto l'illuminato.
Ora comunque c'eravamo anche noi; frequentavamo con assiduità l'osteria, come da tradizione, ed avevamo anche, qualche anno prima, dato vita ad un gruppo musicale.
In quel periodo i vecchi avevano anche dato vita ad una specie di convivio e naturalmente, non si ballava purtroppo più nella saletta attigua, si ritrovavano spesso, quasi giornalmente, all'osteria. Si erano chiamati club dei bat i quercoi e noi naturalmente ne facevamo parte, chiamammo così anche la squadra di calcio del paese che con alterne fortune partecipava a tornei estivi, campionato CSI e trasferte in terre lontane.
Non era mai corso buon sangue tra Roe Basse e Roe Alte,  le due frazioni erano addirittura divise dal paesino di Poian, soprattutto in campo calcistico; loro avevano anche il campo di calcio mentre noi dovevamo mendicarlo. Comunque mettemmo in piedi una sfida tra i due paesi; ogni anno si sarebbero disputate una partita di andata ed una di ritorno, con l'eventuale bella, per attribuire un trofeo che la squadra uscita vittoriosa avrebbe detenuto nel bar del proprio paese per rimetterlo in gioco l'anno successivo.
Quale miglior simbolo se non l'atavica Kaliera, da molto tempo di uso comune, poteva rappresentare cotanta disfida; un bel paiolo di rame fu sistemato su un ricco piedistallo di marmo e divenne il trofeo conteso. Per alcuni anni, talvolta in modo truffaldino, Roe Alte uscì vittoriosa dalla contesa ed il trofeo fece bella mostra di se al bar Larin.
Nel 1989 il campo da calcio di Roe fu dotato di illuminazione e per l'inaugurazione dell'impianto fu deciso di procedere con la partita di andata della disfida, stavolta naturalmente in notturna; all'evento erano invitate e furono presenti le autorità comunali, soprattutto in vista della successiva cena a base di porchetta.
Fummo straordinari anche in campo stavolta, l'arbitro finalmente era neutrale, per la prima volta, vincemmo abbondantemente e fu una dura lezione per quei superbi.
Avevamo chiesto ai dirigenti di quella squadra che il trofeo fosse presente sul campo durante la partita come sarebbe stato logico, con scuse di ogni genere la richiesta non fu accontentata e grande fu la nostra sorpresa, eravamo costernati e ci sentivamo offesi,  quando il trofeo non fu portato alla cena dove avrebbe dovuto esserci consegnato. Dissero che il bar Larin era ormai chiuso quella sera,  ma che avremmo potuto ritirare il nostro premio l'indomani per portarlo all'osteria di Roe Basse.
Di buon'ora il giorno dopo ci recammo, con baldanza,  per il ritiro ma il trofeo era sparito, da allora di quel trofeo non si è più avuta notizia.
Non tutto il male viene per nuocere, recita un famoso aforisma, pur affranti costruimmo immediatamente un monumento alla cara scomparsa sulla riva de Poian, e demmo il via ad una celebrazione commemorativa con musica ed abbondanti libagioni nello stile del Principato, che fu poi appuntamento annuale.
Il monumento doveva essere anche dotato di una iscrizione che ne esaltasse l'alto valore; per cui fu contattato tale Gorini, libero pensatore, già ben noto alle forze dell'ordine per alcune sue intemperanze, in quel di Perugia. Il Vate perugino così espresse il suo pensiero:

donde venne non si seppe
donde andrà non si saprà,
è la fine del baccalà.

L'alto pensiero fu trasferito con lettere dorate su una lapide che fu posta ai piedi del monumento.
Una notte buia e tempestosa mani sacrileghe, non del tutto ignote, sottrassero la lapide e danneggiarono irrimediabilmente il monumento, la lapide fu ritrovata semidistrutta qualche giorno dopo  gettata con ignominia tra i rovi. Senza perderci d'animo fu eretto un nuovo monumento ben più solido del primo ed ancora presente sull'ipotetico confine tra i due paesi, la scritta del poeta fu riportata su lastra di rame ed inserita sulla base del monumento.
Fu quello il momento che determinò la creazione dello stemma araldico del Principato, Giulio era disgustato dal comportamento dei nostri vicini, già aveva pensato di riprendere le tradizioni antiche almeno nella forma, perciò dopo aver ben visionato i documenti diventati di suo possesso ed aver ben ponderato le vestigia del passato e del presente, l'illuminato affidò l'incarico ad artista di fiducia, appunto Bicio da Roe Alte, contattato per la bisogna e già autore della mappa di Roe Basse.
Dispose quali erano i simboli, che già erano stati dei vecchi principi, che dovevano essere raffigurati e lasciò libera invettiva all'artista. Sul simbolo doveva naturalmente esserci il nome del Principato, il tralcio di vite, la bissa e la caliera ed il motto della casata principesca.
Il motto stava bene in latino per cui fu chiesta la traduzione al Prete che ben volentieri tradusse così: la verità viene a galla nell'alcol, questo il significato della scritta che appare sotto i simboli.

  Spero, con queste poche righe, di aver soddisfatto coloro che volevano conoscere la storia e la simbologia dello stemma, magari più avanti scriveremo di qualche personaggio o di qualche particolare avvenimento del Principato.


Appendice 1 - Notte di fuochi

Halloween, se ci fosse ancora il povero ed ignavo Don Abbondio si chiederebbe "chi era costui?". Anch'io, nel mio piccolo, più volte mi sono posto la stessa domanda; perplesso, non sono riuscito a darmi una risposta ragionevole se non quella che sia uno dei tanti fenomeni commerciali di importazione.
La mente vola e riaffiorano i ricordi di un non lontano passato, ricordo il giorno dei morti come una giornata di mestizia, pur se consapevoli che la morte è il compendio della vita ed è un fatto assolutamente naturale, vi era nell'aria quel senso di tristezza e di nostalgia per la mancanza delle persone che ci erano state care. Si andava al cimitero accompagnati dai bambini e si portavano sulle tombe quei crisantemi che erano stati appositamente coltivati.
Non ricordo di mascherate con vampiri, streghe o altri mostri sanguinolenti; o di feste all'insegna dell'orrido, al massimo qualche buontempone, ma erano rari, metteva una zucca svuotata con scavati occhi, naso e bocca ed illuminata da una candela sul ciglio della strada; ma la cosa non riguardava di certo i bambini che alla sera stavano a casa. Certo, ogni cosa che può far sorridere un bimbo è benaccetta ma nelle nostre tradizioni erano altri i momenti di divertimento e comunque non prescindevano dall'insegnare loro che la vita non è solo gioco.
Anche allora, comunque, si andava per famiglie in maschera; a Carnevale, di giorno, e senza proferire la minaccia dello scherzetto ci si esibiva in una qualche improvvisata performance che poteva essere canora, di danza, o di cabaret e si riceveva quanto era nelle disponibilità di quella famiglia; scointhe, stracaganase, carobole, bagigi e se avevamo fortuna qualche thirela e qualche sugheto.
Dopo il carnevale vi era il periodo di "penitenza" della Quaresima con tutte le restrizioni poste dal clero a chi naturalmente, ed allora erano in molti, voleva seguirle.
A metà Quaresima veniva concessa, sempre dal clero, una giornata di "riposo" e generalmente venivano organizzate delle feste da ballo. In quell'occasione, per antica tradizione benaugurate, era uso brusar la vecia; l'operazione, che traeva le sue origine da tradizioni pagane, consisteva nell'accendere dei grandi falò con le ramaglie inutilizzabili avanzate dal taglio della legna che venivano in origine accatastate in grandi mucchi in luoghi ben definiti ove accorreva la gente e che ormai, persa un pò la tradizione, venivano invece bruciate a bordo bosco più che per altro per fare un pò di pulizia.
Era anche tradizione, ma anche una utilità, che le canne del mais dopo il taglio venissero legate in fascine e poste ad essiccare in enormi covoni per essere poi utilizzate nelle stalle, opportunamente sminuzzate, quale lettiera per le mucche.
Da sempre qualche buontempone in vena di dispetti, durante la serata dei falò, ben coperto nell'anonimato dell'oscurità, metteva a fuoco qualcuno di questi covoni. Il danno per i contadini, pur se non enorme, era comunque significativo, mancando le canne per le lettiere bisognava usare del buon fieno, per cui era stata emessa una legge che prevedeva per i rei, naturalmente se colti sul fatto, una multa esorbitante per quegli anni, ben 20.000 lire per ognuno dei covoni distrutti
Su qualche piazza alcuni volenterosi nel rispetto della tradizione avevano ricominciato a dare vita all'antica cerimonia bruciando con le sterpaglie anche dei manichini che raffiguravano "la vecia" e leggendo un suo improbabile testamento.
La cosa era molto simpatica e, cosa più significativa per quei tempi, veniva concesso anche alle fanciulle di assistere al rito, per cui, insieme alla Messa di mezzanotte di Natale, era una occasione per incontri al buio. Ben inteso, non erano incontri che davano tanto spazio alle effusioni, qualche bacio rubato e per i più fortunati qualche rapida pomiciata; le fanciulle di allora erano tutte molto accorte a non essere compromesse, tra l'altro erano sempre accompagnate e gli orari di "libera uscita" erano calcolati al secondo.

Avvenne che nel lontano 1971 noi fossimo impegnati con la nostra band al bar Larin, (le famigerate "Anime sul Ghiaccio") per cui non potemmo assistere a nessuno dei vari falò improvvisati.
Alla chiusura del bar e dopo aver sistemato gli strumenti, circa mezzanotte e mezza, qualcuno lamentò di non aver visto i roghi, del testamento della vecia non importava poi molto, per cui decidemmo, complici naturalmente le molte birre ingurgitate durante la serata musicale, che poteva essere di buon auspicio anche per noi bruciare qualche "meda de cane".
Così con la R8 di colore giallo quasi a pieno carico, partimmo per la sacra missione.
La nostra fama, eravamo ben noti come ragazzi molto esuberanti ed anche molto ribelli, ci rendeva consapevoli che i primi sospetti sarebbero ricaduti su di noi, per cui studiammo attentamente anche un piano operativo per evitare il più possibile di essere colti con le mani nella marmellata.
I più attenti, forse avevano già premeditato l'avventura, avevano notato che dietro alla latteria di Sedico, dove vi erano allora le più belle campagne coltivate a mais di tutto il circondario, vi erano, in quel periodo, un numero spropositato di covoni messi in linea e ben ordinati; fu quella la nostra prima meta.
Il piano che avevamo studiato prevedeva che ognuno di coloro che a turno sarebbe stato impegnato nella mansione di fuochino scegliesse un certo numero di covoni ben definiti che avrebbe acceso senza intralciare il lavoro degli altri e così, armati di una torcia imbevuta di nafta e non troppo visibile da lontano, ognuno si dispose all'opera.
La tecnica, anche questa ben studiata, prevedeva di alzare alcune di queste fascine e accendere il fuoco all'interno del covone, nel momento che le fiamme cominciavano a crepitare ricoprirle con le fascine alzate e dirigersi per ripetere l'operazione presso un altro covone; il metodo consentiva di accendere alcuni covoni prima che le fiamme del primo risultassero visibili da lontano.
Mai il nostro gruppo diede segno di maggiore efficienza che in questa operazione, dopo pochi minuti mentre già ci allontanavamo di tutta fretta si alzavano al cielo crepitando ed illuminando la profonda notte le fiamme di una quindicina di covoni mentre sopraggiungevano dalle vicine abitazioni l'abbaiare dei cani e le grida allarmate dei proprietari del campo.
Proseguimmo la nostra strada fino in cima ai colle di Villiago ove sostammo per ammirare la nostra opera e orgogliosi del bel lavoro eseguito, decidemmo di continuare l'opera in altre zone anche per dar modo a chi non aveva svolto il ruolo di fuochino di provarne l'ebbrezza.
Non potevamo di certo tornare indietro per la stessa strada, ci sarebbero stati i contadini che, impossibilitati a spegnere le fiamme, guardavano andare in cenere il frutto del loro lavoro, così proseguimmo fino a Triva per tornare poi verso il centro attraversando Longano.
Doveva essere solo una meta di passaggio ma, sembrava una sfida, c'era uno di quei covoni proprio in mezzo alla piazzetta, la povera R8 non era neppure del tutto ferma che le fiamme già crepitavano alte spandendo nel cielo le faville.
Stavamo ripartendo quando ci accorgemmo che sotto le canne vi era una cuccia con un cane legato ad una corta catena, probabilmente il covone era stato eretto in quel posto, non tanto per preservarlo dagli eventuali piromani, ma per tenere al caldo la povera bestia.
Immediatamente ci fermammo e scendemmo tutti e 9 dalla vettura, la povera bestiola guaiva e strattonava la catena e noi tra le ormai alte fiamme provammo a liberarla non senza difficoltà visto che la bestiola, terrorizzata, non collaborava; tutti noi avemmo la giusta dose di morsi e di scottature ma alla fine il cane fu libero e subito si dileguò, ancora spaventato, nella notte.
Riprendemmo la marcia soddisfatti per aver salvato il cane ed attraversammo il centro di Longano, subito dopo, vicino alla strada che portava a Bribano, vi erano degli altri covoni, che naturalmente incendiammo. Per strada non vi era nessuno, a quel tempo solo quelli come noi, che non amavano troppo le regole e le conformità, erano in giro.
Prendemmo la Cal de Messa, anche lì vi erano nei campi dei covoni ed anche lì ripetemmo la sacra missione che ci eravamo imposti, poi qualcuno parlò delle campagne di Villa e di Seghe di Villa ove quei covoni si sprecavano da quanti ve n'erano; a dire il vero c'era uno dei nostri che voleva fossero bruciati anche dei covoni, non troppi naturalmente, di proprietà del padre per stornare i certi sospetti da lui.
Prendemmo quindi la strada per Villa e poi la stradina che costeggiava il Cordevole verso Seghe di Villa. Qui c'era solo l'imbarazzo della scelta, per altro la zona era disabitata per cui potevamo anche operare con calma; tutti e 9 furono parte attiva nell'operazione ed un numero spropositato di covoni illuminò quasi a giorno la notte senza luna. Nella foga incendiaria si rischiò anche che qualcuno desse fuoco ad un grosso covone di fieno; per fortuna ci accorgemmo per tempo e riuscimmo a fermare i fuochini che si apprestavano all'opera.
A quel punto decidemmo di tornare a Viliago per ammirare dall'alto la nostra opera; ripassammo dietro la latteria, i fuochi si erano ormai spenti, solo qualche piccola brace si notava tra i solchi dei campi per cui ritenemmo che si poteva accenderne ancora qualcuno; stesso copione dell'inizio dell'avventura e stessi cani che abbaiavano mentre tra alte imprecazioni tornavano a farsi vivi anche i contadini.
Da Villiago lo spettacolo era epico; avevamo quasi gli occhi lucidi dalla soddisfazione mentre ammiravamo il bel risultato conseguito.

Era ora di tornare a casa.
Ci avviamo quindi per la via del ritorno e ci accorgemmo di non essere più soli, una Fiat 850 bianca si era messa sulle nostre tracce e ci stavano cercando.
Furono dietro di noi mentre attraversavamo Longano, tutto sommato ci divertiva quell'inseguimento, ci sentivamo come i grandi criminali inseguiti dalla polizia, la povera R8 montava anche lei un motore 850 che avevo naturalmente un pò taroccato e malgrado il notevole carico godeva di prestazioni migliori della Fiat. Bisognava comunque essere accorti, di R8 di colore giallo ce n'erano ben poche in tutto il Bellunese e la targa poi era ridicola: BL 30200, per cui bisognava sempre mantenere la giusta distanza che lasciasse almeno qualche dubbio sul riconoscimento della vettura.
Viaggiammo così per almeno un ora o anche di più, quando sbagliavano strada e li perdevamo, magari accendevamo qualche altro covone e poi li andavamo a cercare e l'inseguimento proseguiva.
Ormai la notte stava finendo e prima che il sole illuminasse il paesaggio dovevamo essere rientrati, aumentai la velocità e l'850 rimase indietro, ai giardini di Landris scaricai i ragazzi che abitavano in quella zona e che colà avevano le loro biciclette.
Speravo che vista la nostra fuga in avanti quelli dell'850 si fossero arresi ed avessero desistito per cui tornai tranquillamente sulla statale e mi accorsi invece che stavano sopraggiungendo, giù tutto l'acceleratore e li staccai nuovamente.
Dovevo scaricare uno dei nostri a Roe Alte per cui, esisteva ancora il vecchio edificio del Bar Albina, girai subito dopo la casa che faceva angolo tra la statale e la strada interna e mi fermai dietro il muro, il nostro prontamente scese mentre sopraggiungeva a rumba l'850 che imbocco la strada ma trovatasi d fronte la R8 dovette schivarla ed allargare la curva prima di fermarsi, mentre io, innestata la retromarcia, tornavo sulla statale e me ne andavo libero e giocondo.
Ormai una tenue luce si stava diffondendo; i due dell'850, visto che ormai non potevano più raggiungermi, pensarono bene di mettersi all'inseguimento del nostro amico che si era nascosto tra i materiali edili del costruendo fabbricato poco dopo l'incrocio.
I nascondigli non erano poi molti, decise di immergersi disteso in una pozza di fango nell'ombra buia di una delle baracche erette dai muratori per riporvi il materiale che poteva essere asportato. I due della Fiat girovagarono a lungo ma non riuscirono a trovarlo, sembra anche che ad un certo punto uno di essi abbia messo un piede sulla sua schiena per scavalcare la pozza ma sentendo il terreno molle abbia desistito per non sporcarsi le scarpe. Se ne andarono i cercatori delusi, probabilmente dovevano andare a lavorare, e lui finalmente poté avviarsi verso casa.
Il nostro aveva un padre molto severo che gli proibiva di fare tardi e di frequentare la nostra compagnia che riteneva deleteria per l'educazione del virgulto; lui comunque era il cassiere della nostra band che avrebbe anche dovuto, cosa mai fatta, adempiere agli adempimenti SIAE, per cui era uso andare nella propria camera all'ora imposta dal padre, niente televisione in casa, attendere che anche lui si coricasse, e poi scendere per la grondaia e raggiungerci; stesso metodo per il successivo rientro.
Pieno di fango com'era andò a spogliarsi nelle stanze in disuso della casa della nonna defunta che era vicina a quella del padre e con le sole mutande addosso, o forse neppure quelle, s'inerpicò sui tubi della grondaia fino alla sua camera ed andò a godere del sonno del giusto.
A dire il vero eravamo tutti, anche se meno di costui, belli infangati, quello che aveva bruciato anche i covoni del padre incautamente aveva partecipato all'avventura calzando un paio di scarpe nuove di balla che dopo quella loro prima notte risultarono incalzabili.
Comunque il giorno dopo era il giorno della verità, non sapemmo mai quanti covoni erano stati dati alle fiamme quella notte, di certo se ci avessero beccati ed avessero applicato la multa conseguente forse staremo ancora pagando il debito. Il primo indagato fu quello di Roe Alte, verso le otto del mattino una delle vittime del raid fece visita a suo padre; dopo i convenevoli di rito, senza formulare accuse specifiche con l'astuzia propria dei contadini, chiese se il ragazzo fosse a casa, naturalmente la risposta fu affermativa ed allora, quale astuzia, chiese se poteva vedere le scarpe che il ragazzo portava la sera prima.
Pur non comprendendo la domanda, per lui il "bocia" era andato a letto presto come al solito, il padre acconsentì e lo accompagnò in camera del figlio che, molto stanco, non si era neppure svegliato, e di fronte al letto quasi lampeggiavano un paio di scarpe lucidissime.
Tornarono in cucina e mentre bevevano qualcosa la pur sempre vittima raccontò quanto era successo nella notte, scusandosi per gli, ormai, infondati sospetti.
Nel pomeriggio andai dalla morosa, era consuetudine di allora, eravamo tranquilli sul divano di casa quando venne in visita uno dei coltivatori di Villa. Naturalmente fu fatto accomodare e gli fu servito del vino, poi egli espose il motivo della sua improvvisata visita, disse al padre della fanciulla che non aveva più bisogno che andasse con il trattore a portargli a casa le canne perchè, qui cominciò a fissarmi, qualcuno durante la notte le aveva bruciate. Con assoluta indifferenza, volevo quasi chiedere maggiori lumi sulla vicenda ma prudentemente mi astenni; del resto mica parlavano con me, continuai a parlare con la morosa delle nostre cose. Appena il villico se ne andò e prima che mi fossero rivolte imbarazzanti domande, lamentai un improvviso mal di pancia e me ne andai.
Non credo che tutti i sospetti su di noi fossero stati dissolti, prove concrete comunque non ce n'erano e naturalmente tutti i partecipanti al raid avevano la bocca cucita; alla fine la cosa fu presa quasi come un evento naturale quale poteva essere un'alluvione o un terremoto, e per fortuna tutto finì lì.

Appendice 2 - Assalto all'armeria

Più diventiamo vecchi e più ci pare che i giovani non siano all'altezza dei nostri tempi, capita che li giudichiamo insolenti e senza voglia di fare qualcosa di positivo, ci dimentichiamo di come eravamo alla loro età e di come affrontavamo la vita a modo nostro.
È vero che il mondo è cambiato, noi cercavamo l'indipendenza dalla famiglia mentre loro sono restii ad abbandonare le certezze famigliari, le diverse possibilità economiche e tecnologiche di oggi consentono loro un modo di vivere più agiato, più comodo ma alla fine vivono da giovani il loro tempo. Purtroppo con gli anni aumenta anche l'insofferenza verso quel modo di vivere veloce e spregiudicato che è proprio della gioventù di ieri e di oggi e come dice De Andrè diventiamo prodighi di buoni consigli visto che non siamo in grado di dare buon esempio. Voglio qui raccontare di un'avventura di alcuni giovani degli anni settanta, i nomi naturalmente sono di fantasia ma la cosa è realmente avvenuta.

Era costume di allora che i ragazzi di ogni età, finito il periodo scolastico, fossero impegnati in qualche lavoro per non rimanere tutto il giorno a bighellonare per le strade o meglio, per dirla alla Bellunese, per non comportarsi da stracapiathe.
Da piccoli si aiutava nei lavori di prati e campi e quando si cominciava a frequentare le Avviamento o le Medie si veniva collocati per l'estate in qualche azienda artigianale ad imparare il mestiere. C'era quasi un pò d'invidia verso chi era stato "rimandato" in qualche materia scolastica, così, dovendo fare gli esami di riparazione poteva stare a casa qualche giorno prima degli esami a studiare.
Naturalmente questo "apprendistato" non era retribuito a dovere, qualche mancetta, se si era stati particolarmente attivi, e niente di più. In pratica non avevamo quasi mai una lira in tasca.
Questo convinse i ragazzi del nostro gruppo, particolarmente vivaci, che l'unica soluzione per una vita agiata fosse il furto.

Ormai Franco era entrato di prepotenza a far parte del sodalizio e visto che amava vestirsi alla moda ma che non aveva mai una lira in tasca (una volta per i soldi di una pizza era stato sdraiato per scommessa un'ora a pancia in giù ed un'altra ora a pancia in su in Piazza Campedel) aveva escogitato un metodo particolare per soddisfare questa sua passione.
Il sabato mattino si recava al mercato indossando i pantaloni del padre per lui naturalmente esageratamente grandi ed espressa la volontà di acquistarne un paio al commerciante di turno entrava nel camerino di prova con alcuni capi; dopo il tempo necessario usciva dal camerino e consegnato all'ignaro venditore la manciata di pantaloni, tutti meno il paio che aveva scelto e che indossava sotto le capienti braghe paterne, dichiarava di non aver trovato nulla di suo gusto o che gli andasse bene; lo stesso metodo con gli opportuni accorgimenti avveniva per "l'acquisto" delle magliette.
A volte nei momenti di particolare confusione si superava ed entrato nel camerino con gli indumenti da provare usciva vestito di tutto punto a nuovo abbandonando all'interno gli stracci con i quali era venuto.
Era facile vendere quella merce a coloro che avevano la stessa taglia che così si vestivano a nuovo con notevole risparmio, così divenne un punto di riferimento per certi acquisti; e vista anche la precedente considerazione che al mondo si arricchiva solo chi rubava fu così che un giorno lui ed altri tre decisero che era ora di fare sul serio.
A dire il vero i quattro non avevano concepito un piano preciso, all'inizio era solo una giornata di assenza da scuola, per Ciano, Franco e Silvano, mentre Angelo, che da poco lavorava, si era unito alla allegra brigata per solidarietà; soltanto Ciano già dal mattino aveva un'idea ben chiara: recuperare dai motorini parcheggiati davanti alla scuola quanti più pezzi possibile in vista di un futuro acquisto da parte sua di analogo mezzo di locomozione.
Vista la naturale inclinazione di Franco per ogni tipo di attività che prevedesse la sottrazione a terzi Ciano gli chiese di aiutarlo ed armatisi entrambi degli utensili atti alla bisogna, che egli portava sempre in apposito contenitore con i libri di scuola, cominciarono ad armeggiare su carburatori, candele e quant'altro poteva poi tornare utile. Forse perchè si stavano sporcando eccessivamente o forse perchè giudicarono che in quel modo l'appropriazione indebita era pur sempre un lavoro poco dopo desistettero ed unitisi agli altri decisero di lasciare la città capoluogo.
Partirono quindi da Belluno verso Feltre in autostop su due macchine che si erano fermate a raccoglierli. Per Silvano ed Angelo non vi furono problemi ed arrivarono tranquillamente alla meta, più sfortunati gli altri due che erano saliti sulla macchina di un insegnante. Naturalmente durante il tragitto autista ed ospiti chiacchierarono del più e del meno e all'altezza di Vellai venne chiesto agli autostoppisti cosa facessero nella vita; alla dichiarazione di Franco di frequentare una scuola professionale di Belluno l'insegnante rallentò e guardatolo bene disse che gli sembrava impossibile in quanto lui insegnava in quella scuola ma non ricordava di averlo mai visto, Franco non aveva detto una bugia solo che la sua frequentazione non era sufficientemente assidua da far sì che i professori si ricordassero di lui.
Franco, che voleva conservare l'anonimato soprattutto per evitare spiacevoli comunicazioni e le successive probabili incomprensioni in famiglia, finse di avere un improvviso attacco di mal di macchina che costrinse l'ingenuo insegnante a fermarsi a lato della strada. Il mezzo non era ancora ben fermo che entrambi già si erano proiettati fuori e con i libri sottobraccio, allora non si usavano zainetti ma solo una cinghia elastica per tenerli insieme, via per i prati il più lontano possibile; nella foga della fuga Franco non si era accorto, o forse sì, di aver preso assieme ai suoi libri anche la borsa di nylon del professore contenete la sua colazione.
Silvano ed Angelo, che sopraggiungevano su un'altra macchina, vista la scena, pur non comprendendo casa fosse successo, la fecero fermare e scesero poco lontano e dopo che il professore fu ripartito il gruppo si riunì e partì, libri in spalla, verso Feltre.
Memori di quanto appena successo, vogliosi di passare inosservati, ed anche per essere più liberi nei movimenti giunti al bivio che porta alla stazione, ove oggi vi è una grande rotatoria, decisero di nascondere i compromettenti attrezzi scolastici e la merenda del professore dietro una siepe e si incamminarono verso piazza Isola.
Dapprima seguirono Ciano ancora ispirato da moto e motorini che voleva vedere se era poi così difficile sottrarre un'intera moto in qualche concessionaria, un veloce sopralluogo confermò la notevole difficoltà dell'operazione ed ancora una volta a malincuore desistettero.

Vagabondarono poi tra le bancarelle del mercato, approfittando talvolta di quanto era lasciato incustodito, e giunsero alfine di fronte all'armeria; in vetrina ed in bella mostra un revolver ed alcune pistole.
Fu una folgorazione paragonabile a quella di San Paolo sulla strada di Damasco che non li fece cadere di sella solo perchè non erano a cavallo, tornarono loro alla mente tutte le disquisizioni sulla facilità di diventare ricchi rubando e decisero che la strada della loro vita era quella della rapina per compiere la quale era meglio se non addirittura indispensabile essere armati.
Serviva un piano da strateghi un piano fatto a tavolino che non lasciasse nulla al caso ed allora proseguirono come se niente fosse fino ad una vicina pasticceria nella quale entrarono; non si è mai saputo perchè entrassero così decisi visto che non avevano soldi per consumare ma è anche vero che la fortuna aiuta gli audaci. Appena entrati Franco vide tra i clienti un suo vecchio compagno di collegio, da giovane era stato per anni ospite del collegio di Vellai, e subito disse agli altri componenti la banda di consumare quanto e quello che volevano che per il conto avrebbe pensato lui; ordinato qualcosa anche per sè si avvicinò all'ignaro ragazzo e subito lo apostrofò: ti ricordi di me? e senza attendere risposta immediatamente lo prese per il bavero e gli ingiunse di pagare tutte le loro consumazioni. Esterrefatti gli altri videro il tizio avvicinarsi alla cassa e pagare il tutto senza proferir verbo e poi uscire di tutta fretta dal locale.
Alle richieste dei soci Franco ben volentieri dette le necessarie spiegazioni: questo ragazzo, soprannominato carta stampada era il rampollo di una ricca famiglia Feltrina ed era stato messo in collegio a Vellai per gli stessi motivi per i quali già vi erano alloggiati tanto Franco che Angelo: nessuna voglia di studiare e condotta troppo esuberante.
Franco che mal sopportava qualsiasi tipo di restrizione alla sua libertà ogni tanto dava da matto (talvolta gli capita ancora anche se per altri motivi) tanto che era ritenuto dagli altri ospiti della casa un elemento pericoloso; vittima frequente dei suoi raptus era soprattutto carta stampada dalle cui opulente disponibilità si sentiva umiliato. Era quindi naturale che il pover'uomo, rivedendosi davanti il suo aguzzino e memore di un passato infelice, ritenesse una fortuna il potersela cavare solo pagando il conto delle consumazioni.
Mentre finivano la colazione il piano prendeva forma ed allora: Silvano, l'intellettuale del gruppo, doveva distrarre l'armaiolo chiedendogli informazioni plausibili, Angelo doveva ulteriormente sollecitarne l'attenzione girovagando per il negozio al capo opposto della vetrina con gli oggetti del desiderio e gli altri due dovevano impossessarsi dei ferri del nuovo agognato mestiere.
Piano perfetto, o quasi, e allora via dentro l'armeria, Silvano si avvicina all'esercente e comincia a chiedere tutto, ma proprio tutto, su una balestra esposta, naturalmente dalla parte opposta alla vetrina, dichiarando di essere interessato all'acquisto perchè appassionato di quella attività sportiva e desideroso di dedicarvisi; Angelo comincia a toccare ed armeggiare con vari oggetti esposti ed entrambi riescono a catalizzare completamente l'attenzione del commerciante.
Franco e Ciano erano quindi liberi di agire come volevano, già da quando entrati erano parcheggiati nei pressi della vetrina ed approfittando del momento, senza mai distogliere lo sguardo dal venditore allungarono uno la mano destra e l'altro la sinistra all'interno dell'espositore. Non vi era tra i due accordo preventivo sul pezzo di cui impossessarsi; entrambi avevano maturato dentro di loro la decisione di prendere l'unico grosso revolver esposto ed intenti come erano a seguire le mosse dell'armaiolo entrambi cercarono di carpirlo senza guardare, a memoria, le mani si toccarono e la tensione provocò una fulminea irrazionale reazione per la quale ognuno dei due ritrasse il braccio velocemente urtando gli altri pezzi esposti, rovesciandoli con fragore che sembrava di tuono e mentre l'espositore finiva di ribaltarsi, aggiungendo al precedente rumore di ferraglia rumore di vetri infranti e mentre accorreva l'esterrefatto commerciante i quattro, gambe in spalla, lasciavano l'ormai inospitale negozio.

Riunitisi poco lontano girovagarono ancor un pò, bisognava in qualche modo tirare l'ora di chiusura di scuola, per il mercato e poi tornarono a prendere i libri.
Aprirono a quel punto la borsa del professore e cominciarono a cibarsi della sua colazione; Franco scelse, ne aveva diritto in quanto autore della sottrazione, una banana, e mentre si apprestava a consumarla notò nei pressi un vetusto carro agricolo, si avvicinò e cominciò a toccarlo imbrattandosi le mani del grasso con il quale avevano unto gli assali; con un gesto naturale si pulì le mani facendole scorrere sulle braghe e poi preso da un improvviso insano raptus toltasi la maglietta, nuova dal mercato del sabato precedente, si spalmò il torace e la faccia di grasso esausto e nero ed avvicinatosi alla strada, banana in mano, cominciò a dare da matto dimenandosi come fosse una scimmia.
Mentre si esibiva scimmiescamente passò, con il camioncino di ritorno dal mercato di Castelfranco, il di lui padre che guardò a lungo questa strana creatura ma, anche convinto che il figlio fosse a scuola a Belluno, non lo riconobbe e allorquando poco dopo un Franco ripulito e composto si sedette vicino a lui al desco domestico, raccontòe descrisse quanto aveva visto e deprecando il fatto si raccomandò al figlio perchè anche lui un giorno non diventasse come quello scapestrato che di sicuro era la vergogna e la disperazione della propria famiglia.
Per intanto erano ancora a Feltre, avevano deciso di tornare a Belluno con la "littorina" per dare meno nell'occhio, ma il tempo dopo l'affanno della mattinata faticava a trascorrere, tornarono in piazza ed entrarono all'Upim.
Franco non riuscì a resistere e naturalmente aiutato dai complici riuscì a riempire un paio di borse di oggetti vari, occhiali e magliette, che riuscì a trasportare all'esterno; i banchi del mercato stavano ormai chiudendo ma fecero ancora a tempo per un ennesimo raid: si avvicinarono compatti ad un banco di frutta e verdura disposto lungo la strada della stazione ed ordinarono un cartoccio di ciliegie a testa; appena in possesso della merce via gambe in spalla verso la littorina seguiti dalle urla del commerciante, che oltre ai normali insulti del caso esprimeva inequivocabili certezze sulla inesistente virtù delle loro mamme.
Consumarono beatamente le ciliegie sul treno ed anche quando questo si fermò a Bribano proseguirono tutti insieme fino a Belluno dove Silvano doveva riprendere la propria vetusta Vespa.
Le corriere degli studenti erano già andate e non potevano certo tornare in quattro sulla vespa di Silvano, così si appropriarono di due biciclette che stranamente il giorno dopo riportarono a posto malgrado il primo intento di riverniciarle appena a casa per poi rivenderle, e giunsero al bar Larin dove in pochi minuti l'esperto Franco antesignano dei "vu cumprà" riuscì a vendere l'intero contenuto delle due borse.

Appendice 3 - Con cavallo, ma solo all'andata

L'operazione, per fortuna inconcludente, all'armeria di Feltre, convinse i partecipanti del raid ed anche gli altri che forse sarebbe stato meglio pensare ad un futuro più normale e meno rischioso; questa decisione non fece comunque rinunciare al vivere da protagonisti la nostra giovinezza.

Continuammo pertanto con le uscite di gruppo serali e non solo; il padre di Ciano , che senza dubbio tra di noi era uno dei più esuberanti, per antico retaggio di vita contadina e per una grande passione possedeva un cavallo, al quale voleva più bene che a tutti gli altri componenti la famiglia, e naturalmente possedeva finimenti, basto e quant'altro potesse servire ad utilizzarlo.
Un giorno, tornato dai campi e dovendo recarsi a suonare ad un matrimonio in quel dei Casoni in tutta fretta, incaricò Ciano di staccare il cavallo dal carro e dopo le necessarie operazioni di brusca, striglia ed asciugatura, rimettere l'animale in stalla.
Destino volle che alcuni componenti la band che normalmente nei caldi oziosi pomeriggi estivi stazionavano nei giardini della piazza di fronte al Bar Landris passassero di fronte a casa sua mentre, annoiati, si recavano sulle spiagge del Cordevole; lo videro intento pur se di malavoglia all'opera; anche in questo caso fu una folgorazione, scesi da moto e motorini, mentre qualcuno andava a chiamare gli altri del branco, lo convinsero senza neppure troppa fatica a fare un giro con cavallo e carro.
Dove si poteva andare? di certo non verso Sedico, qualcuno avrebbe poi informato il padre, non restava che attraversare il Cordevole a guado e recarsi in quel di Gron.
La frescura dell'acqua forse piacque anche all'animale e non vi furono particolari difficoltà nel guado ma tornati sulla strada Angelo cominciò a sollecitare una maggior velocità, e Ciano salito in piedi a cassetta cominciò ad incitare il povero cavallo con le urla e con le lunghe briglie.
Tutto andò bene, il cavallo trottava allegramente, quando Ciano sempre in piedi e con i capelli al vento pensò bene di mettersi a cantare a squarciagola "o Nina". Forse la canzone non era di suo gusto o forse non lo era l'esecuzione, tant'è che il povero animale partì di gran carriera al galoppo con grandi nitriti gettando lo scompiglio tra i passeggeri: quelli in piedi caddero addosso agli altri che ruzzolavano sul fondo del carro in un parapiglia dantesco.
L'indole docile del cavallo più che la perizia dell'auriga riportarono la calma e la fortuna degli incoscienti fece sì che nessuno ebbe danni di rilievo.

Come Dio volle giunsero alfine al bar di Gron e parcheggiarono il mezzo legando il cavallo ad una grondaia; naturalmente i buoni propositi di pronto rientro non ebbero seguito, qualcuno cominciò anche a giocare a carte mentre il cavallo attratto da un ciuffo verde di appetitosa erba cominciò a tirare; i chiodi che trattenevano la vecchia grondaia si staccarono con estrema facilità dal muro che la sosteneva e rovinosamente tutto il lungo tubo cadde a terra ancora attaccato al collo del cavallo che senza curarsene lo trascinò con sè verso l'erba.
Il rumore del tubo che cadeva lasciò perfettamente indifferenti gli allegri escursionisti come non furono distolti dalle loro operazioni dall'improvviso suono di parecchi clacson di macchine in transito; solo quando uno quegli autisti entrò bestemmiando nel bar a chiedere di chi fosse il carro qualcuno uscì a vedere cosa stesse succedendo, non Ciano troppo occupato dalla briscola. Il cavallo beatamente si stava cibando dei fiori esposti sul davanzale di una finestra di una casa di fronte al bar con ancora tutto il tubo al seguito ed il carro era finito in mezzo alla strada per altro ricoperta dei calcinacci caduti nello strappo dei chiodi.
Breve e comunque pacifico (troppo caldo per litigare veramente) alterco con gli autisti delle vetture forzatamente ferme e nuovo parcheggio del carro legando però stavolta il cavallo all'inferriata di una finestra ben lontana dalla strada.
Rientrati i pochi che avevano compiuto l'operazione di recupero tutti continuarono beatamente con le attività così interrotte mentre qualcuno di passaggio per Gron pensò bene di andare ai Casoni ad avvisare il padre del nostro giovane cavallerizzo.
Le ore intanto passavano e finalmente il padre, potendo disporre della pausa tra pranzo e cena come si usava allora per i matrimoni, pensò bene di recarsi in quel di Gron a controllare quanto gli era stato riferito.
Sinceratosi prima sulle condizioni del cavallo sbirciò dalla finestra del bar e ritenne opportuno non intervenire, così con una corda sufficientemente lunga legò il pacifico animale al paraurti della 500 e pian piano riportò cavallo e carro a casa.
Ignari di tutto gli escursionisti continuarono la festa e solo a tarda sera Ciano si ricordò dell'incombenza che il padre gli aveva affidato nel primo pomeriggio e decise che era ora di rientrare, sorpreso ed esterrefatto notò la scomparsa ma fu subito informato dell'avvenuto da ridanciani indigeni e così lui e gli altri guadarono in senso opposto il Cordevole, stavolta a piedi ed immersi nell'acqua.
Non vedemmo per alcuni giorni Ciano nè alle prove nè in giro, ma poi, finalmente perdonato, tornò con lo stesso spirito di prima a far parte del gruppo.

Appendice 4 - Dinamite

Avevo finito la naia da pochi mesi e durante l'estate ero stato assunto alla Calce Sois in qualità di elettricista, ma l'impianto della Montedison, per chissà quali motivi, non era più considerato importante da quell'azienda e pertanto le varie manutenzioni alle quali sarei stato preposto non venivano giudicate necessariamente indispensabili e così, salvo adempiere a riparazioni urgenti ed inderogabili e comunque sempre alla va che vai bene, mi adattai a compiere altri lavori che giustificassero la mia presenza.
Dovetti quindi adattarmi per un breve periodo a spalare carbone tra uno strato di materiale ed un altro in cima ai forni e poi fui relegato nella cava a spaccare con una pesante mazza le pietre troppo grosse per la bocca del frantoio. Si trattava di un lavoro pesante che svolgevo per 9 ore al giorno, ma che tutto sommato mi piaceva, sopra tutto perchè contribuiva a farmi avere quel fisico che piaceva alle ragazze. Così restavo, armato di mazza, sul cassone del camion che serviva per il trasporto al frantoio a controllare le pietre che vi venivano caricate con l'escavatore ed individuate quelle più grosse con appropriati colpi le dovevo ridurre alla giusta misura.
Il vetusto camion, una volta carico, percorreva le poche centinaia di metri verso la tramoggia del frantoio ed ivi giunto scaricava il materiale che passato per pesanti magli, che lo riducevano in piccoli pezzi, veniva poi caricato nei vagoncini della teleferica che lo portavano ai forni.
Naturalmente tra un viaggio e l'altro avevo tutto il tempo per fare nuove esperienze e così imparai ad usare l'escavatore idraulico e ad usare la dinamite aiutando il "fuochino" a caricare la "volata" o a fare i "patar" per frantumare i sassi che dopo la prima esplosione erano rimasti eccessivamente grossi.
Il vecchio minatore era ormai in attesa della pensione, era anziano ed anche un pò male in arnese, per cui vedeva di buon occhio il mio interesse per quel mestiere, sopratutto perchè, pur seguendo le sue indicazioni, gli risparmiavo parecchia fatica inerpicandomi sui grossi pietroni.
Divenni in breve abbastanza esperto nell'uso della dinamite, dei detonatori e dei vari tipi di miccia, ed a seguito di indicazioni da parte degli anziani che lavorano in quella cava, un vero esperto, o quasi, nella pesca con la dinamite. I primi esperimenti li feci in prossimità della cava nelle pozze più profonde del torrente Gresal che scorreva li vicino, senza tuttavia dei grandi risultati visto che la fauna ittica vi scarseggiava, credo anzi che le vittime dei miei primi esperimenti fossero nella maggior parte rane e rospi.
Ritenuto di avere le conoscenze e l'esperienza necessaria, con altri due dipendenti Montedison decidemmo che ci voleva qualcosa di più concreto.

Pur se c'erano stati gli attentati in Alto Adige e già iniziava il fenomeno del terrorismo in tutta Italia, l'esplosivo che avevamo in cava non era molto controllato e, a dire il vero, era assolutamente facile asportarlo. Era custodito in una baracca fatiscente di tavole di legno che ormai sentivano il passare del tempo, a poca distanza dal frantoio, chiusa con un lucchetto che si poteva tranquillamente aprire con un pezzo di filo di ferro rigido, quando addirittura non era lasciato aperto, nessun controllo sulle quantità esistenti o su quanto ne fosse usato per il lavoro, per cui nessuno si sarebbe accorto, se mai vi fosse stato l'interesse, se ne mancava un pò.
"Bana", esperto pescatore, con il bilancino aveva individuato il posto giusto sulla strada della sinistra Piave in prossimità di Vas ,dove tra l'altro egli si recava sovente a pescare, e così, detto fatto, il sabato successivo a questa importante decisione io e Dino a bordo della fantastica R8 andammo a raggiungerlo sulla cima del sasso dal quale egli effettuava le sue pescate.
Il fiume in quel punto sbatteva proprio sull'enorme roccia sulla quale eravamo appollaiati e girandovi intorno formava una specie di piccolo lago che proseguiva poi bello profondo lungo una spiaggia sabbiosa. Proprio su quella spiaggia, nella parte soleggiata, vi erano numerose persone intente a prendere il sole ed altre erano dentro l'acqua; ormai noi eravamo lì e non avevamo alcuna voglia di desistere dal nostro criminoso piano, avevo promesso pesci ad una infinità di persone, e così scesi su una specie di gradino fuori dalla vista di chi transitava sulla strada, e protetto anche dalla vista dei bagnanti da una protuberanza rocciosa, mi accinsi a preparare quanto serviva per procedere mentre Dino scendeva in acqua per un impervio sentiero dalla parte della spiaggetta.
Naturalmente esplosivi e miccia, abilmente sottratti dalla polveriera della Calce Sois, erano destinati all'utilizzo in cava e bisognava quindi procedere ad una particolare preparazione perchè tutto funzionasse anche in acqua visto che era necessario, anche per attutire il rumore dello scoppio, che l'esplosione avvenisse in profondità; bisognava perciò porre la cartuccia già innescata con detonatore e miccia dentro un sacchetto impermeabile nel quale era anche stata inserita una pesante pietra, per portare il tutto a fondo, e poi rendere impermeabile, con l'utilizzo di grasso, la miccia che fuoriusciva perchè non si spegnesse a contatto con l'acqua e rendere ermetica, sempre con l'ausilio del grasso, la chiusura del sacchetto.
. La parte di boion che mi interessava era in ombra e non vi erano naturalmente dei bagnanti, era grande e profonda tanto da farmi decidere che ci volevano tre cartucce; il problema era che avevo solo due sacchetti abbastanza grandi, di dinamite ce n'era quanta si voleva.
Rimestando dentro il cofano della R8 avevo recuperato un altro sacchetto ma le sue dimensioni non consentivano l'inserimento della pietra di profondità e così decisi, incautamente ed avventatamente, di legarla all'involucro ben ingrassato con un pezzo di spago mezzo marcio che avevo trovato per terra.
Tutto era pronto, risalii sulla strada per controllare la situazione del traffico che in quell'ora calda era pressochè inesistente e detti un occhio per vedere se anche Dino fosse pronto. Dino era più che pronto, oserei dire fremente, immerso nell'acqua subito dietro la curva del fiume, in mutande con cintura di cuoio per sorreggere un capiente sacco di iuta alla vita e con un altro sacco in mano che doveva consegnare a me quando lo avessi raggiunto dopo le esplosioni. Non restava che procedere, tornato sullo spuntone di roccia protetto dalla vista detti fuoco alle micce e gettai il tutto nel fiume.
Nessun problema per i due sacchetti preparati ad arte che andati a fondo produssero due esplosioni soffocate con immense colonne d'acqua; lo spago del terzo invece cedette o era solo stato legato male, di fatto la pietra andò lontano a seguito della spinta ed il sacchetto con la cartuccia di dinamite, sovrastato dalla leggera nuvoletta di fumo azzurrognolo della combustione della miccia, si avviò lentamente galleggiando, verso la curva del fiume e quindi verso i bagnanti.
Preoccupato per quanto poteva avvenire risalii di corsa sulla sommità del sasso e mi precipitai lungo il sentiero che Dino aveva precedentemente percorso verso il fiume, con l'intento di dare l'allarme; stavo scendendo a rotta di collo quando finalmente la cartuccia esplose, ancor prima di superare la curva, in un botto assordante. I bagnanti allarmati uscirono dall'acqua chiedendosi cosa fosse successo mentre io e Dino, che intanto avevo raggiunto, cominciavamo la raccolta dei numerosi e grossi pesci che affioravano sull'acqua.
L'esplosione, era stato davvero un gran botto, era stata sentita anche dall'anziano guardiapesca che abitava lì vicino e che subito si era precipitato a vedere cosa stava succedendo; dalla strada si vedeva benissimo il laghetto ormai deserto dei bagnanti ma totalmente coperto e luccicante dei pesci morti o tramortiti che la corrente trasportava.
Probabilmente il guardiapesca aveva immaginato, senza dubbio aveva vissuto esperienze analoghe in precedenza, cosa fosse successo; l'anziano si accinse a discendere verso il fiume per lo stesso sentiero da noi percorso poco prima; procedeva determinato ma con la cautela che l'età gli imponeva tanto che tenendolo d'occhio procedemmo nella raccolta mettendo i pesci dentro i sacchi sino a che ci parve ad una giusta distanza e poi con la velocità che i nostri pochi anni ci consentivano uscimmo dal fiume e girato attorno al lago del misfatto traversammo l'acqua dove era più guadabile e ci inerpicammo per un'altro impervio sentiero, mentre l'anziano urlava, inascoltato, "fermi, fermi"; raggiunta la R8 partimmo a gran rumba verso Roe Basse.
Il bello di un avventura è poterla raccontare; e così appena rientrato alla base, il Bar Roe Basse, misi al corrente gli altri di quanto avvenuto.
La facilità con la quale, tutto sommato, l'avventura aveva avuto epilogo, l'incoscienza che ci contraddistingueva e quel fascino che la pericolosità della dinamite oltre al fascino del proibito ci fecero pensare di poter ripetere in altre occasione l'esperienza e così, sempre pronti alla bisogna, la restante dinamite ed altra ancora che andava ad integrare quella che veniva utilizzata, rimase per tutta l'estate dentro il cofano della macchina pronta ad essere utilizzata nelle varie occasioni che si fossero presentate.
E di occasioni ve ne furono parecchie e non tutte finalizzate alla pesca.

Avevamo preso l'abitudine di trovarci ogni tanto per una cena a base dei prodotti della tradizione che riuscivamo a procurarci, quasi sempre andavamo in una saletta nella casa di Beto, la cui mamma era anche un'artista a cuocere la selvaggina.
Era allora abbastanza facile catturare lepri e fagiani, di notte battevamo le stradine poco frequentate e qualche prato lontano da case; i poveri animali abbagliati dai fari restavano quasi sempre fermi ed era perciò facile o investirli cercando di non romperli troppo o colpirli con un piccolo fucile.
Naturalmente c'era ogni tanto il pesce, o andavamo per gamberi lungo il Gresal o al laghetto di Gron; mettevamo anche qualche rete per gli uccellini che allora erano numerosi e che con la polenta erano il nostro piatto principe; per le verdure dipendeva da quanto disponibile negli orti lontani dalle case.
Vi fu allora una serata, tarda serata, in cui ci recammo io, Beto e Silvano per una battuta di pesca alla centrale di Gron. Anche qui l'acqua, stavolta del Cordevole, girando intorno ad un grosso masso aveva scavato un piccolo lago nel quale a detta di Beto, bracconiere per vocazione, vi erano delle trote di notevoli dimensioni.
Detto fatto ancora una volta con tutto l'armamentario necessario ed in più una lampada a carburo ci accingemmo all'opera. Il lago era piccolo e bastava una cartuccia che Silvano, in vena di nuove esperienze, volle lanciare appena pronta; mai fidarsi dei dilettanti, Silvano aveva scelto come posto dell'immersione un punto ove l'acqua era più scura convinto che ciò significasse una maggior profondità, purtroppo l'acqua in quel posto era più scura solo per il fatto che vi era un sasso quasi affiorante.
Un botto enorme squarciò la quiete notturna, tacquero i grilli e in un innaturale silenzio abbandonati armi e bagagli tutti e tre di corsa verso la macchina parcheggiata in una non lontana macchia di arbusti; Beto aveva la lampada a carburo e guidava la precipitosa fuga tallonato da Silvano che aveva nell'occasione dimenticato la sua naturale indolenza, mentre io completamente al buio cercavo di raggiungerli ostacolato dal fatto di avere ai piedi un paio di ciabatte tra l'altro anche aperte davanti.
Dopo numerose escoriazioni ai piedi e dopo aver lasciato almeno un paio di unghie sul greto del Cordevole, visto anche che gli altri due potevano correre fin che volevano ma se non arrivavo io non potevano comunque partire, decisi di proseguire con più cautela e raggiunsi gli altri alla vettura.
Naturalmente via più veloci della luce e subito a casa.
Silvano, che abitava a notevole distanza dal luogo del misfatto, giunse alla propria abitazione con la vespa di ordinanza e trovò la madre in vestaglia, preoccupata per un gran colpo che aveva sentito e, le erano tornate in mente le esplosioni delle bombe degli americani, che non sapeva spiegarsi, visto che il cielo era terso e cosparso di stelle splendenti.

Un sabato sera di quella splendida estate eravamo al gran completo in una amena località dell'Agordino a ballare in una sala da ballo sottostante un bar ristorante, quella sala andava molto di moda in quel periodo; non so che gruppo suonasse in quell'occasione ma la serata era divertente e piacevole.
Vi era anche una comitiva di ragazzi di Belluno, cittadini sborroni con la puzza sotto il naso, che si divertivano a rompere le scatole un pò a tutti accorrendo in gran numero quando qualcuno cercava di reagire ai loro pesanti scherzi o alle loro provocazioni.
Qualcuno di loro molto incautamente provocò qualcuno del nostro gruppo e fu subito rissa; il titolare del locale cercando di sedare gli animi, altrettanto molto incautamente, si schierò dalla parte dei cittadini, aveva un pò il dente avvelenato con noi per altre situazioni analoghe che erano avvenute su nostra iniziativa.
La cosa non era comunque di facile soluzione quando all'improvviso si fece spazio nel mucchio vociferante Beto, con in ogni mano alcune cartucce di dinamite già innescate ed indifferente alla folla circostante si accinse, prontamente aiutato da Silvano ed altri del nostro gruppo, a legarle attorno all'unica colonna, di ferro, che sorreggeva il locale.
In un lampo la sala divenne deserta, solo noi intenti al nostro lavoro ed un disperato titolare che non trovò di meglio, per acquietarci, che cominciare a portare casse di vino e birra in notevole quantità purchè desistessimo dall'insano proposito.
Naturalmente neppure per un secondo pensammo di provocare seri danni al locale che ci vedeva protagonisti ogni sabato sera; l'azione era più che altro dimostrativa e così quando il numero delle casse di bevande ci parve equo, desistemmo. Ormai di continuare la serata con ballo ed orchestra non era possibile, chissà dove erano arrivati nel frattempo gli orchestrali nella loro precipitosa fuga, tanto precipitosa che avevano dimenticato un microfono, che ovviamente andò, ad integrare la strumentazione del gruppo che stavamo creando.
Così mentre un affranto oste chiudeva di tutta fretta le porte del locale noi, casse di bevande in spalla pensammo a come disfarci della dinamite ormai innescata e soprattutto a cosa fare di tutta quella roba da bere che non avremmo potuto trasportare in sede visto lo spazio a disposizione sulla vettura.
Vi era nei pressi del locale un luogo ameno che talvolta utilizzavamo per appartarci con qualche ragazza di buon cuore, si trattava di una piccola radura tra i cespugli che si affacciava su un profondo dirupo e lì ci recammo per decidere il da farsi. Naturalmente non eravamo abituati a pensare a secco ed allora cominciammo a dar fondo a quanto il generoso oste aveva offerto, oltre tutto dovevamo ridurre il carico.
Non ricordo chi fu ad iniziare, di fatto ad un certo punto qualcuno accese la miccia di un candelotto e lo getto nella valle sottostante; dopo quel botto da lacerare i timpani tutti vollero provare l'ebbrezza del lancio, fu anche necessario andare a prendere la restante dinamite nel cofano della macchina, e per rendere più interessante la cosa dopo aver acceso la miccia tenevamo il candelotto in mano il più possibile per dare prova di coraggio.
Secondo me Dio guarda con occhio benevolo gli ubriachi ed gli incoscienti (beati i poveri di spirito), non avrebbe altrimenti incaricato Noè (disgustato da tutta quell'acqua) di scoprire la vite e di conseguenza il vino, o forse quella notte non era occupato altrove e ci dedicò la Sua attenzione; di fatto nessuno si fece male e verso l'alba, finita la dinamite e dato fondo a quanto non era possibile trasportare, stanchi ma soddisfatti scendemmo dai monti verso casa.
Rimpiazzata la dinamite usata con una nuova fornitura e ripresa quindi la nostra vita normale dopo qualche sabato passato, opportunamente, in altri luoghi, tornammo nella splendida località montana per la solita serata danzante.
Dapprima ci guardarono un pò in cagnesco ma poi, dopo un paio di giri di bevande naturalmente alcoliche, tutto tornò come prima e come non fosse successo niente o quasi.
A questo punto penso sia naturale per chi legge chiedersi come fosse possibile dare seguito ad una cosa così eclatante senza che fossero avvisati o comunque intervenissero i tutori dell'ordine.
Va detto che nella nostra sonnacchiosa provincia di rado avveniva qualche fatto veramente importante che richiedesse l'intervento delle forze armate, per cui di notte si potevano incontrare solamente rare pattuglie stradali e naturalmente sulle strade importanti. I carabinieri, oltre che cercare di sistemare con molta elasticità situazioni di ogni tipo, da poco avevano sostituito con mezzi idonei le vetuste biciclette ed ancora non erano entrati nell'ottica moderna di movimento e in quei tempi a nessuno passava per la testa di interpellarli per cose che potevano essere risolte in proprio.
In questo caso poi i carabinieri che sarebbero stati interpellati erano quelli di stanza ad Agordo e quindi per le misure del tempo abbastanza lontani da consentirci di eclissarci nel caso avessimo avuto avvisaglie di un loro intervento; probabilmente vi era già allora anche la stazione carabinieri di una località vicina, ma per questioni di campanile non era mai presa in considerazione.
Ricordo tra l'altro che qualche anno prima con un'altra compagnia avevamo anche sottratto la Campagnola dei CC a Caviola, abbandonandola dopo un paio di chilometri senza che la cosa avesse successivamente pubblicità e conseguenze, ma questo fatto fa parte di un'altra storia.

Malgrado i molteplici impegni goderecci di cui eravamo certi protagonisti, trovavamo anche il tempo di continuare con le prove della nostra nascente band, con quei brani che ci avrebbero visto, nelle nostre illusioni un giorno radioso, dispensatori di emozioni da sopra un palco. Di certo ormai ci andava stretto ripetere dei pezzi che ci sembrava di eseguire con sufficiente perizia ed abilità, e ritenemmo giunto il momento, convinti di aver raggiunto una sufficiente maturità musicale ed anche spinti e sollecitati dai numerosi sostenitori, di affrontare il giudizio del pubblico.
La cosa andava fatta naturalmente con tutte le cautele del caso, un conto era suonare tra di noi e nel caso recuperare eventuali errori di esecuzione, altro era sottoporre brani musicali di buon successo e quindi ben conosciuti ad orecchi estranei ed ovviamente critici. Vi era poi anche da tener conto del naturale senso di ritrosia insito in quasi tutti ad esibirsi di fronte ad altre persone che poteva, malgrado nessuno di noi potesse essere definito timido, creare dei traumi per i quali era possibile risultasse compromesso il nostro futuro artistico.
L'allora gestore del Bar Roe Basse, sempre pronto a sfruttare qualsiasi occasione che potesse incrementare le vendite, mise a disposizione il magazzino (costruito abusivamente e con materiali di recupero) attiguo al locale di mescita, ed in un momento di innaturale e probabilmente euforica generosità offrì anche un giro di bevute a tutto il gruppo.
I preparativi naturalmente furono frenetici, facemmo anche le prove di acustica per disporre al meglio la strumentazione e finalmente, strumenti lucidi e noi rossi come gamberi, calato il buio demmo il via all'esibizione di fronte ad un pubblico non troppo numeroso ma che man mano che procedevamo nelle esecuzioni sembrava gradire il concerto. Era fatta, applausi e bevute ci avevamo messo in condizione di avere una specie di consapevolezza che nessuno avrebbe più potuto fermarci nel nostro cammino verso chissà quale luminosa e non ben definita meta.
Ci sentivamo in completa comunione ai Creedence Clearwater Revival (eseguivamo quasi tutti i loro pezzi) al loro rientro da Woodstock, mentre ricevevamo i complimenti delle persone intervenute, oltre a quelle scontate dei nostri fans che da quella sera aumentarono notevolmente di numero.
Tra questi nuovi sostenitori ve ne era uno che incontravamo sovente in quella amena località Agordina, anche lui a caccia di generose fanciulle; un ragazzone dai capelli rossi e ricciuti e tutto lentigginoso che, entusiasta della nostra performance, propose di far entrare nel gruppo la sorella che suonava il clarino a suo dire con notevole maestria.
La cosa fu naturalmente giudicata interessante soprattutto per motivi non necessariamente legati alla musica e, qualcuno probabilmente associò una suonatrice di clarino a proprie perverse ed aspirate (non solo in senso lato) turbe sessuali che (mas)turbavano e stravolgevano i suoi sogni di adolescente, e così decidemmo di prendere in seria considerazione anche questa possibilità.
La ragazza era molto simpatica, non so se fosse davvero brava a suonare; non ci fu modo di ascoltarla in quanto dopo aver conosciuto alcuni elementi del gruppo preferì continuare la sua vita normale senza lasciarsi coinvolgere in un modo di vivere che probabilmente per lei era troppo vorticoso.

Mantenemmo comunque buoni rapporti con il ragazzone rosso che, venuto a conoscenza delle nostre avventure pescherecce, fu artefice di una proposta invero interessante. Ora non ricordo molto bene come il tutto fu definito ma mi sembra che il di lui padre fosse in qualche modo guardiano del lago di Vedana che era di proprietà di uno dei tanti cavatori di ghiaia delle Masiere presso il quale egli era impiegato.
Aiutando talvolta il padre nelle sue mansioni il ragazzo aveva scoperto che nel laghetto erano stati inseriti numerosi pesci di varie tipologie, probabilmente per farne un ritrovo per la pesca sportiva o anche solo per il gusto di farlo, a noi dei motivi di tale azione non importava poi molto.
fatto convinti di poter effettuare una pescata miracolosa, con relativa gargantuesca cena, mettemmo a punto un piano, naturalmente a modo nostro lasciando ampio spazio a tutte le possibili e molto probabili improvvisazioni.
Così, caricata bene la R8 di quanto necessario, un sabato sera ci recammo come d'abitudine a ballare; conclusa la serata danzante e tornati al piano, senza eccessiva circospezione andammo a parcheggiare vicino alla 500 del ragazzone in mezzo a dei cespugli antistanti la nostra meta; non eravamo più di 7 od 8 in quanto per l'occasione avevamo preferito viaggiare leggeri.
In quanto figlio del guardiano avrebbe dovuto, quanto ci piacevano i piani ben congegnati che non lasciavano spazio alle improvvisazioni, avere la chiave del lucchetto della catena che assicurava una piccola barca al pontile ed avere anche preparato nascosti in qualche cespuglio li vicino i remi necessari per spingerci sulle onde. Manco a dirlo non c'erano ne chiave ne remi.
Potevamo noi desistere per cose così insignificanti? naturalmente no.
Imprecando, a bassa voce naturalmente, all'indirizzo del rosso con riferimenti più o meno velati alle virtù di tutto il suo parentado passato ed anche futuro, armati di un grosso martello e di una leva che avevamo trovato sotto il pontile, attrezzi per fortuna dimenticati in qualche operazione di manutenzione, dopo numerosi e non troppo ben assestati colpi, ci fu anche qualcuno che riportò qualche unghia nera che naturalmente imputò alla dimenticanza del rosso con naturale incremento di non troppo mormorate imprecazioni al suo riguardo. Verso le tre del mattino riuscimmo in qualche modo a liberare la barca e recuperate con lo stesso metodo due assi dal tavolato del pontile, caricato quanto ci serviva, determinati come novelli Achab, io e Beto ci mettemmo in caccia del bianco capodoglio. Ci accingemmo quindi a prendere il largo dopo aver distribuito tra coloro che restavano a riva i vari incarichi che avrebbero garantito la buona riuscita del nefando gesto.
Per motivi legati alla sua avversione verso l'acqua ed il nuoto Silvano fu relegato al ruolo di guardiano; doveva recarsi all'imbocco del viottolo che portava al lago e nel caso avvertirci tempestivamente dell'arrivo di indesiderati intrusi; vedremo poi come assolse al meglio tale incombenza. Altri, con mansioni consimili, andarono a disporsi in altri luoghi strategici mentre i buoni nuotatori restavano sul pontile pronti, si fa per dire, ad intervenire caso mai ve ne fosse bisogno, nessun incarico fu affidato al rosso sfiduciato ed avvilito.
La navigazione si presentò da subito molto difficoltosa, le due assi piuttosto marce mal si adattavano al ruolo di remi ed anche l'intesa tra i due remiganti non era delle migliori, dopo qualche piroetta comunque la barca si avvio con qualche difficoltà verso il centro del lago.
Ivi giunti, posati i remi ci accingemmo a compiere il lavoro per il quale eravamo in quel luogo; accendemmo allora le due lampade a carburo che avevamo portato, ben attenti a nasconderle alla vista di possibili estranee intromissioni o anche solo al passaggio di qualche rara vettura sulla vicina strada comunale, e cominciammo a dar fuoco alle micce dei sacchetti già preparati durante il lavoro di liberazione della barca.
Cominciammo allora a gettare la dinamite dentro il lago, dapprima con circospezione ma poi notato che la profondità dell'acqua attutiva notevolmente il rumore delle esplosioni accelerammo il ritmo visto che ormai mancava poco all'alba.
All'inizio fummo anche attenti a gettare le cartucce ad una certa distanza ma l'abbrivio impresso all'imbarcazione dalle onde delle esplosioni, avvenivano ormai in continuazione tanto che avevano trasformato quasi l'intera calma superficie del lago in un oceano in tempesta, ci avevano spinto in mezzo a quell'uragano tropicale.
Sembrava stessimo doppiando capo Horn, la barca si innalzava di poppa e di prua (se avessimo saputo quali erano) o addirittura in piano di qualche metro sopra l'acqua mentre onde altissime ci inzuppavano con i loro frangenti.
Anche stavolta, forse a quell'ora non aveva niente altro da fare, il Dio degli incoscienti ci dette una mano e le stesse onde che avevano messo a repentaglio la nostra incolumità ci spinsero a riva dove giungemmo totalmente inzuppati e al buio, lampade e remi erano ormai dentro il lago, con mezza barca piena d'acqua.
Tirato in secco l'imbarcazione la vuotammo alla belle meglio e ci accingemmo, tornata la calma sull'oceano in tempesta, a tornare sulle onde per raccogliere il frutto del nostro lavoro.
Divelte quindi altre due assi dal pontile e recuperata un' altra lampada a carburo da coloro che erano rimasti a riva, tornammo a cavalcare il lago armati stavolta di capienti sacchi.
Grande la delusione nel constatare che sulla calma superficie del lago non vi erano altro che sgardole, che in numero considerevole luccicavano con la pancia alla luna. La sgardola (non so come si chiami in Italiano) è un pesce di basso pregio simile ad una sardina, piena di spine e di colore biancastro; noi speravamo in carpe e trote ma probabilmente il tempo intercorso tra l'uscita ed il rientro nel lago ed il loro peso li aveva, se c'erano mai stati, portati a fondo o si erano ripresi ed erano tornati a nuotare; ormai dubitavamo forte delle asserzioni del rosso dopo quanto avvenuto in precedenza.
Cogliemmo comunque senza eccessivo entusiasmo alcuni di quei pesci, il lago era tutto un luccichio, ed infine con i sacchi quasi vuoti tornammo a riva, stava ormai albeggiando, imprecando ancora una volta all'indirizzo di colui che ritenevamo fornitore di notizie infondate.
In pochi minuti caricammo pesci ed attrezzatura, compresa naturalmente quella che avevano lasciata incustodita gli incauti manutentori del pontile, e salimmo sulle vetture per allontanarci proponendoci di caricare "il guardiano" lungo la strada.
Giungemmo al luogo in cui Silvano avrebbe dovuto assolvere al proprio importante compito; non c'era; pensammo che per maggior sicurezza si fosse nascosto nelle vicinanze vigile ed attento alla bisogna con occhio desto a chi sopravvenendo dall'altra direzione non si fosse ancora accorto di noi. Non era il caso di strombazzare per chiamarlo, tra l'altro il clacson non funzionava, così scendemmo per cercarlo cominciando a chiamarlo dapprima sommessamente e poi via via con voce stentorea senza che questo comportasse alcuna manifestazione di presenza umana.
Preoccupati dapprima pensammo ad un rapimento, poi nell'incerta luce dell'alba qualcuno inciampò in prossimità di un cespuglio in qualcosa di molliccio, era il nostro solerte guardiano che beatamente e caparbiamente giaceva nelle braccia di Morfeo.
Fu dura riportarlo nel mondo reale al quale si presentò farfugliante improperi al riguardo di chi lo scrollava, con occhi vitrei e faccia stravolta; continuando a farfugliare, senza comunque minimamente giustificare la propria azione, entrò nella R8 e, messosi comodo, riprese immediatamente l'attività dalla quale era stato bruscamente interrotto, senza più dare segni di vita sino a casa.
Intanto il rosso era andato avanti e ci aspettava al bivio appoggiato alla sua 500, malgrado tutto ci fermammo; dovevamo comunque accordarci, tutta l'operazione aveva avuto luogo finalizzata ad una pantagruelica cena di pesce, non eravamo poi comunque tipi da serbar rancore e tutto sommato ci eravamo anche divertiti.
Con quanto raccolto sulle acque del lago era certo improbabile dare luogo ad una cena con una ventina di persone giovani e naturalmente affamate e mentre disquisivamo sull'argomento, senza più menzionare le colpe del ragazzo, ci cadde l'occhio su una casetta disabitata ma tenuta bene ubicata vicino alla strada; come molte case di campagna anche questa era dotata di pollaio e di gabbie per i conigli che l'incauto allevatore aveva posto bene in vista.
Il problema cena era risolto, non occorse neppure troppa destrezza, dopo pochi minuti eravamo i felici proprietari di alcuni conigli già pronti e spellati che consegnammo al rosso assieme al pescato perchè incaricasse madre e sorella clarinettista, che ancora non ci conosceva a fondo, delle opportune preparazioni e cotture dandoci appuntamento a casa sua per la consumazione delle vivande.
Fu appunto durante quella cena a casa del rosso che la di lui sorella conobbe meglio la nostra compagnia e decise di desistere definitivamente dal proposito di far parte del nostro gruppo musicale.

Appendice 5 - Fenomeni quasi paranormali

È atavico nell'essere umano, eredità di tempi bui ed ancestrali, pensare che vi sia nel nostro mondo qualcosa di sopranaturale, quasi un mondo parallelo nel quale avviene quello che il normale raziocino non può spiegare; un mondo dove il bene ed il male quasi si fondono. Preti, stregoni e sciamani di varie etnie e religioni da sempre hanno contribuito a rendere credibili e talvolta spaventevoli, cose ed avvenimenti che potevano creare almeno dei dubbi, invocando di volta in volta gli dei o i demoni del caso, instillando in questo modo nella coscienza popolare una particolare deferenza verso tutto ciò che non è di immediata spiegazione.

Credo fosse verso la fine degli anni ottanta; nella tarda estate alla televisione trasmisero per alcune serate un programma in cui si parlava, con ampia documentazione, delle sette esoteriche presenti soprattutto nel nord ovest d'Italia. In quell'occasione illustraronno i riti di iniziazione e con la dovuta dovizia le attività di alcuni gruppi con particolare riferimento alle sette sataniche, parlando anche dei sacrifici previsti nell'adorazione del maligno.
Nulla di eccessivamente strano, una trasmissione come un'altra, almeno, credo, nelle intenzioni di chi l'aveva proposta; costoro però non avevano fatto i conti con la fantasia e la goliardia dei buontemponi bellunesi.
Cominciò a circolare la voce di strani avvistamenti notturni di fenomeni inusuali, processioni di individui incappucciati che, illuminati nel loro lento cammino dalla luce di numerose torce , mormoravano strane giaculatorie producendo un sommesso ma captabile ronzio.
Nella nostra zona si era assunto l'arduo compito dell'"informazione", l'allora casaro di Orzes; per la natura della sua arte costui era costretto a recarsi al lavoro in ora antelucana e per un suo vizio personale rientrava spesso a casa quando il sole era ormai calato da tempo ed i bar erano ormai tutti chiusi; chi meglio di lui poteva essere testimone di quanto avveniva nel circondario nelle ore notturne??
Cominciò a raccontare al bar di incontri notturni con queste processioni ed altri noti "nottambuli" confermarono le notizie asserendo di aver visto anche loro degli strani movimenti o di aver sentito strani rumori provenire dai cimiteri della zona; anche la stampa, sempre assetata di notizie, o pseudotali, da pubblicare, contribuì a diffondere ulteriormente la notizia.
La noia che caratterizzava quel finire d'estate improvvisamente si interruppe; la notizia, con l'ulteriore suffragio e l'opera (casualmente sempre nei bar) di altri improvvisati profeti dell'occulto e quella di sempre più numerosi avvistatori, si diffuse rapidamente in tutta la Valbelluna.
Erano tanti e tali i racconti di avvistamenti o di attività "paranormali" che si susseguivano quasi incessantemente che molti cominciarono a crederci veramente; cominciò allora uno strano movimento notturno di gruppi di individui curiosi che volevano vedere con i loro occhi questo strano ed inusitato fenomeno.
Le mete erano naturalmente i cimiteri della zona i quali, a detta dei meglio informati, erano i luoghi verso cui si dirigevano le processioni e dove, si supponeva, avrebbero concluso "in bellezza" i riti della loro fede.

Era abitudine della nostra compagnia di trovarci al bar il venerdì sera , serata nella quale rientravano gli amici che lavoravano lontano, per decidere come passare al meglio il fine settimana. Naturalmente anche noi eravamo informati delle strane apparizioni ed altrettanto naturalmente non avremmo rinunciato ad essere partecipi delle scorribande notturne per nulla al mondo.
Sia ben chiaro, nessuno di noi credeva nei fenomeni paranormali (avevamo già molti dubbi sulla valenza di riti più diffusi e meglio consolidati) e tanto meno poteva essere influenzato da racconti che comunque avvenivano generalmente nei bar e sempre a tarda ora; qualcuno più concreto e realista di altri cercò anche di valutare la valenza delle chiacchere calcolando tempi e distanze dai luoghi dei dichiarati avvistamenti ai supposti nuovi luoghi di quel culto, ma la voglia di partecipare e di essere protagonisti di questa nuova avventura era troppa. Tutti i dubbi di tutti i generi furono messi da parte ed allora anche noi fummo partecipi nella ricerca delle processioni ed anche noi restammo ore ed ore in attesa vicino ai cimiteri.
Va anche detto, che pur scettici, eravamo tutti colpiti da quello che la cinematografia ci aveva sempre mostrato nei film che trattavano l'argomento; bellissime donne seminude ed assolutamente disponibili, e vergini da "sacrificare" sull'altare della lussuria; pur se i dubbi persistevano non volevamo rischiare di essere eventualmente esclusi da cotanta grazia divina.
Quasi tutte le sere quindi, ad un'ora appropriata, si partiva per il giro completo dei cimiteri; consideravamo che le "funzioni" del caso dovessero avere luogo a mezzanotte, come in ogni racconto dell'occulto che si rispetti, non ci era comunque ben chiara l'influenza della posizione della luna, credevamo che fosse di rigore il plenilunio ma le denunce di avvistamenti erano avvenute in ogni fase dell'astro notturno, per cui considerammo l'influenza delle fasi lunari un'invenzione di scrittori e registi e non ne tenemmo conto.
Ci appostavamo quindi nei pressi di uno dei tanti cimiteri, escludendo quelli che erano vicini a delle abitazioni, ed attendevamo fin quasi all'ora fatidica per spostarci poi velocemente verso gli altri luoghi di tumulazione, terminando la folle corsa solo dopo averli visitati tutti, convinti e fiduciosi che comunque i vari riti, processione compresa, avrebbero richiesto almeno il tempo che noi impiegavamo a spostarci.
Non eravamo soli in questi andirivieni, decine di altre macchine compivano gli stessi percorsi ed alcuni, temendo l'eventuale violenza degli assatanati, erano anche armati di manici di piccone ed amenità consimili.
L'estate era ormai agli sgoccioli, nessuno era riuscito a vedere alcunchè e, malgrado qualcuno continuasse a diffondere notizie di mai provati avvistamenti, l'interesse stava scemando e sempre meno erano coloro che di notte girovagavano con quello scopo.

Improvvisamente avvenne qualcosa, quasi un miracolo, che dette un nuovo impulso a tutta la faccenda, alcuni ragazzi di diciotto vent'anni, stufi di girare a vuoto e desiderosi comunque che la cosa continuasse, avevano praticato fori per gli occhi e per le braccia su dei grandi sacchi neri usati per i rifiuti. Agghindati in quel modo avevano fatto qualche apparizione qua e la, timorosi comunque di eventuali denunce non avevano esagerato la cosa, si erano limitati a fare degli scherzi ad amici e parenti.
Erano anche stati fermati dai carabinieri, che assieme alla polizia, stavano effettuando ricognizioni e controlli, anche loro alla ricerca di "incappucciati" e comunque attenti che tutto quel girovagare non producesse qualche danno di rilievo visto che ancora non c'erano, per fortuna, gli etilometri; pur se i sacchi preparati alla bisogna facevano bella mostra sul lunotto posteriore della macchina i solerti tutori dell'ordine pubblico non se ne accorsero e li fecero proseguire.
Dopo questa avventura, finita bene, decisero che era ora di smettere e portarono a casa uno dei componenti il gruppo. Mentre costui saliva le scale esterne per arrivare alla sua abitazione costoro decisero di fargli uno scherzo ed indossati gli strani ed improvvisati cappucci lo seguirono; prima che giungesse in cima richiamarono la sua attenzione con improvviso rumore, forse urtando violentemente la ringhiera della scala o forse anche pronunciando il suo nome con voce tenebrosa. Costui si girò, li vide e fu inspiegabilmente soprafatto dal terrore; un urlo lacerante e disperato uscì dapprima dalla sua bocca e si trasformò via via in un rantolo mentre tentava in qualche modo e senza riuscirvi di inserire la chiave per aprire la porta di casa.
I ragazzi videro accendersi le luci nella casa e subito si dettero alla fuga risalendo in fretta sulla macchina e dileguandosi nel buio della notte a fari spenti, mentre il nostro continuava ad annaspare disperatamente sulla porta di casa che improvvisamente si aprì ed egli, scostando violentemente la madre che era apparsa sulla soglia, si precipitò all'interno del rifugio domestico non senza aver richiuso precipitosamente la porta dietro di sè.
La notizia si diffuse rapidamente, finalmente un avvistamento certo; e mentre il nostro sfortunato amico per alcuni giorni non riuscì a proferire verbo ancora bloccato dal terrore, per altro certamente non comprensibile in quanto egli stesso faceva parte dell'allegra brigata ed egli stesso era dotato di cappuccio.
Ovviamente riacquistato l'uso della favella si guardò bene dal chiarire l'equivoco; forse non era ancora ben sicuro di quanto fosse avvenuto o forse ponderò che comunque se la cosa si fosse risaputa sarebbe di certo stato lo zimbello di tutta la ValBelluna.
Le forze dell'ordine mobilitate già dall'inizio dei movimenti notturni avevano anche loro rallentato la sorveglianza man mano che il traffico cimiteriale scemava, ripresero così il loro duro lavoro con inconsueta e rinnovata foga ben determinati a scoprire l'arcano. Pur se eravamo ormai verso la fine dell'estate le serate erano ancora calde ed era piacevole girovagare a vuoto, prodigandosi in pattugliamenti ed in posti di blocco.
Naturalmente noi che conoscevamo la natura dell'avvistamento solo sporadicamente, per non perdere l'abitudine, partecipammo ulteriormente alle visite cimiteriali; quell'allegro girovagare notturno però ci mancava ed allora, consapevoli che non vi sarebbero stati ulteriori provati avvistamenti, decidemmo che questa avventura non poteva finire nell'oblio e senza gloria; troppo ne eravamo stati coinvolti, bisognava concludere alla grande, con qualcosa che sarebbe rimasto nella memoria delle generazioni future.

Era ancora una volta un venerdì sera e come sempre eravamo seduti fuori dal solito bar a sorseggiare birra; eravamo una decina compresi i ragazzi dai cappucci facili e a dire il vero ci stavamo anche un pò annoiando, la conversazione naturalmente era incentrata sugli ultimi avvenimenti e pian piano prese forma un piano azzardato per finire in assoluta bellezza quella movimentata estate.
Vi era, lontana dalle altre abitazioni, dove la strada che da Via Gresal va verso il bivio per Orzes una piccola vecchia costruzione semi diroccata che veniva indicata come la casa delle streghe; quale luogo migliore per dare seguito ad una di quelle cerimonie che erano sempre state descritte ma che nessuno aveva mai veramente visto?
Bisognava decidere come potevamo agire per dar luogo a qualcosa che facesse parlare a lungo dell'evento e mentre la quantità di birra ingurgitata cresceva prese forma l'ardito piano.
La decisione non era delle più semplici, tante erano le proposte che man mano venivano scartate poi, improvvisamente, la luce; qualcuno azzardò che spettacolare sarebbe stata la croce fiammeggiante resa tristemente famosa dal KKK e a furor di popolo presente fu finalmente presa la giusta decisione.
A nessuno passò per la mente che la croce di trista memoria poco centrava con le messe nere; così comunque era stato deciso e rimaneva solo da pensare a come proseguire nella nuova e, tutto sommato pericolosa, avventura.
Il piano venne messo a punto con diabolica astuzia; ci volle tutto il fine settimana ed una quantità industriale di birra; l'appuntamento fu fissato per il venerdì successivo, quando sarebbero stati presenti anche coloro che lavoravano nei cantieri lontani.
Calato il sole, man mano che la luce si affievoliva, cominciarono ad arrivare alla chetichella i protagonisti del complotto; incaricati di preparare la croce erano i ragazzi più giovani. Si presentarono con un cosa indecorosa costituita da due bastoni legati tra loro con del filo di ferro che subito fu bocciata da tutti gli astanti soprattutto per le misure invero scarse per qualcosa che doveva essere imponente ed anche durevole.
Piantammo la croce sul terreno molle di un'aiuola e decidemmo di risolvere il problema che così si era presentato; non potevamo di certo rinunciare.
Avevo, casualmente, alcune di quelle grosse tavole di pioppo che venivano usate negli imballaggi dei pannelli isotermici di cui allora facevo saltuariamente uso. Incrociammo tra loro due tavole di quattro metri, alla giusta altezza naturalmente, e con l'ausilio di un potente avvitatore elettrico le bloccammo tra loro con parecchie viti, non prima comunque di aver preparato la punta che doveva infilarsi nel terreno.
. Cominciammo quindi a ricoprire la croce con vecchi maglioni o altri capi di abbigliamento non più utilizzabili, immersi precedentemente, e ben impregnati, in un grosso bidone pieno di gasolio. Gli amanti dei film polizieschi pretesero che ad ognuno di quegli indumenti fossero tolte le etichette e tutto quello che poteva ricondurre al proprietario; ormai tutti noi eravamo ben presi nella parte.
Attendemmo quindi l'ora x per dare il via alle operazioni, naturalmente sorseggiando un pò di birra, finchè non giunse l'ora di mettere in opera il piano studiato fin nei minimi dettagli.
Partì quindi la prima macchina con a bordo l'incaricato di preparare il buco sul terreno per inserire successivamente la croce; la macchina superò la casetta e rallentando sulla curva subito dopo, lo scaricò senza quasi neppure fermarsi nella folta siepe a bordo strada che subito lo nascose ad ogni occhio indiscreto.
Mentre la macchina si allontanava, il nostro, dopo aver ben controllato che non ci fossero altre macchine che sopraggiungevano e che avrebbero potuto notarlo, individuò il punto opportuno e si mise alacremente al lavoro. Quando la sua opera risultò ottimale segnalò con uno straccio bianco il punto preciso e tornò vicino alla strada acquattandosi dietro la siepe nel punto della curva nella quale era precedentemente smontato.
Attese pochi minuti ed ad una velocità assai ridotta arrivò la seconda macchina; portiera già aperta ed il nostro saltò dentro insieme all'attrezzo con il quale aveva portato a termine la sua opera.
Il piano prevedeva che tutte le macchine utilizzate per non dare nell'occhio proseguissero il giro senza più tornare indietro per la stessa strada; dovevano perciò passare per Vignole, poi per Roe Alte e rientrare in sede dalla riva de Poian.
Rientrata la seconda vettura ne partì una terza con a bordo l'autore dello scavo ed il conducente del furgone che doveva portare la croce. Lo scopo di questo giro era quello di controllare che nessuno si fosse insospettito dai precedenti andirivieni e di indicare al conducente del furgone il punto preciso dove era stato preparato il buco.
Rientrarono quindi gli esploratori e subito partì il furgone; l'equipaggio del furgone era composto naturalmente dall'autista e da un passeggero che doveva indicare la manovra precisa per accostarsi il più possibile al punto prescelto; sul cassone, assieme alla croce grondante gasolio, altri due elementi il cui incarico era quello appunto di infilare l'ormai pesante croce nel buco. Naturalmente davanti al furgone era partita un auto "civetta" che proseguendo lentamente sulla strada stretta non avrebbe permesso l'arrivo di altre vetture nel senso opposto.
Con precisione chirurgica il furgone giunse sul posto, i due addetti, sollevata non senza fatica la grande croce, la infilarono al suo posto facendo in modo che rimanesse ben dritta e naturalmente girata verso la strada.
Rientrarono tutti e mentre eravamo in attesa dell'ora stabilita dal piano per l'accensione, di tanto in tanto una vettura faceva il giro per controllare che ancora nessuno si fosse accorto di quanto era stato predisposto; non era previsto un gran traffico su quella strada a quell'ora e comunque chi non fosse a conoscenza del piano poteva solo casualmente notare la grande croce che si confondeva con le piante del contiguo bosco.

Venne finalmente l'ora di completare l'opera; il piano anche in questo viaggio prevedeva che colui che doveva appiccare il fuoco fosse trasportato da una prima vettura che con le medesime modalità di quella che aveva cominciato lo avrebbe scaricato senza fermarsi sulla curva dopo la casetta. Stavolta bisognava fare più attenzione; la fiamma d'accensione poteva essere scorta da qualcuno e la seconda vettura, quella che doveva prelevarlo, doveva arrivare con un tempismo perfetto.
Probabilmente i nostri nelle loro normali attività, tanto lavorative che di altro genere, quanto a precisione e dedizione talvolta potevano lasciare a desiderare ma in questo frangente furono perfetti; nessuna sbavatura o neppure un lieve intoppo; il nostro piromane giunto ai piedi della croce scavò una piccola buca per rendere meno visibile l'accensione, buca nella quale fece arrivare il lembo di uno degli stracci che avvolgevano la croce controllando che fosse ben impregnato di gasolio, poi versò nella buca un pò di benzina ed alcuni cubetti di diavolina, la benzina serviva solo per accelerare l'accensione della diavolina, e, notato il lento arrivo della macchina che doveva prelevarlo, dette fuoco alle polveri.
Il piccolo fuoco difficilmente poteva essere notato dalla strada ed egli, con la dovuta solerzia, tornò dietro la siepe mentre già si avvicinava la vettura per la sua raccolta; si ritrovarono quasi insieme sulla strada ed egli si infilò repentino nel mezzo che ancora aveva la portiera spalancata e compiendo con noncuranza il solito giro rientrarono alla base.
Tutti sanno che il gasolio comincia ad ardere lentamente e dopo essersi scaldato, per cui le fiamme cominciarono ad avvolgere la croce quando i nostri erano già ben lontani.
il loro rientro, atteso il tempo che giudicammo sufficiente, partirono alcune vetture, stavolta ben piene di passeggeri, per vedere come stava andando. Era quasi l'una di notte e subito dopo il ponticello la videro, quasi si commossero allo spettacolo, le fiamme lambivano tutta la croce e crepitavano altissime illuminando l'oscura notte e proiettando tutto intorno le lunghe ombre delle persone nel frattempo sopraggiunte dalle vicine abitazioni, qualcuno aveva anche allertato i carabinieri. Anche altri, che usavano quella strada per rientrare a casa, si erano fermati ad assistere a quello che indubbiamente era un inusitato spettacolo.
Anche gli autori del misfatto si fermarono e mostrando quasi assoluta indifferenza chiesero agli astanti cosa stesse succedendo mentre a sirene urlanti sopraggiungevano i primi tutori della legge.
Visto che le fiamme non rappresentavano un pericolo la croce fu lasciata ardere fino alla naturale estinzione, non fu ritenuto necessario l'intervento dei pompieri. Intanto sopraggiungevano, ancora non c'erano i telefonini ma la voce si era sparsa immediatamente, tutti i cacciatori di "incappucciati" ed altri girovaghi curiosi di assistere al fenomeno.
I nostri, con aria assolutamente innocente, parlottarono con i conoscenti che erano presenti, pilotando, ve ne fosse stato bisogno, la conversazione sulle cerimonie dell'occulto.
Tutta la notte fu un andirivieni di macchine della polizia o dei carabinieri e naturalmente vi erano anche quelle di parecchi curiosi, ritardatari dei bar, che avevano sentito la notizia che rapidamente era giunta anche, cosa più che ovvia, in quei pubblici esercizi.
Come di consueto fu aperto un fascicolo contro ignoti dagli organi inquirenti, si intensificarono i posti di blocco e lo scorazzare delle gazzelle; fu ripreso con estremo vigore anche il girovagare verso i cimiteri, ma naturalmente nessuno riuscì a vedere alcun incappucciato.

La grande croce, almeno quanto ne restava, fece bella mostra di sè appoggiata al muro della caserma dei carabinieri di Sedico e colà rimase esposta per parecchio tempo.
Come è nell'ordine delle cose pian piano tutto tornò alla normalità, le notti cominciavano anche ad essere fredde per il sopraggiungere dell'autunno, passarono sempre meno gazzelle di polizia e carabinieri e alla fine non ci furono più posti di blocco in relazione a quanto avvenuto.
Noi riprendemmo ad incontrarci al bar il venerdì sera per decidere come passare il fine settimana senza più neppure accennare all'avventura estiva.
Nel rientrare a casa una di quelle sere mi accorsi che la croce che avevamo scartato dall'operazione era ancora piantata sulla aiuola prospiciente la strada; naturalmente la rimossi ma rimasi sorpreso, e tutto sommato anche felice, che non fosse stata notata da nessuna delle moltissime persone che durante quei giorni avevano disperatamente cercato un segno ed erano transitate innumerevoli volte di fronte a quella aiuola.

Appendice 6 - Giostre a Sois

Avvenne che un sabato sera di tarda estate rientrando dalla consueta visita prefestiva alla morosa, allora gli incontri con le morose avevano luogo verso le otto di sera e generalmente si concludevano prima di mezzanotte, vidi fermi ed in animata discussione Carletto, Silvano e Angelo davanti al Bar Milani, mi sarei fermato comunque ma così la fermata era più giustificata.
Scesi dalla R8 ed avvicinatomi fui messo al corrente che Carletto e Silvano erano appena arrivati a bordo della Gilera 124 del primo reduci da una particolare avventura in quel di Sois, dove si erano recati per partecipare alla locale sagra paesana. Come di consueto per ogni sagra paesana che si rispetti, anche a Sois c'erano le giostre ed era avvenuto, così la stavano raccontando, che un ragazzo, pare di Castion, che con gli amici si stava divertendo su quel coso a catene, nelle ricerca di "prendere la coda" per guadagnarsi un giro gratis e forse spinto con troppa veemenza dall'amico di turno, era andato a sbattere da qualche parte della struttura ed il giostraio, fermato il marchingegno, aveva ritenuto giusto riempirlo di botte.
Così la raccontavano, fremendo di sdegno per l'accaduto; con il senno di poi penso che la cosa non fosse così semplice e che forse il giostraio, pur esagerando nel dimostrarlo, qualche ragione ce l'avesse. In quel momento comunque n´ io né gli altri, a dire il vero noi tutti per passate esperienze non nutrivano troppa simpatia per quella categoria di persone, avevamo avuto più volte da ridire e talvolta anche con animosità fino ad arrivare in qualche occasione a qualche piccola rissa, eravamo disposti a credere alla completa buona fede del ragazzo così ingiustamente punito, per quella che ritenevamo una mera fatalità, così, decidemmo di partire alla volta di Sois a rimostrare per quella che ritenevamo una non giustificata prevaricazione.
Detto e fatto, dopo naturalmente aver bevuto qualcosa, tutti a bordo della R8 e senza interrompere l'animata discussione giungemmo su quella piazza; naturalmente parcheggiammo a lato strada nelle immediate vicinanze della giostra in mezzo alla gente e scesi dalla vettura quasi ci scontrammo con un altro gruppo di nostri coetanei che sopravvenivano da Castion. Animati dalle nostre stesse intenzioni volevano chiedere ragione dell'operato del giostraio nei confronti del loro compaesano.
Non fu difficile, vista la comunanza di intenti e di obbiettivi, intenderci immediatamente, scartata quindi da subito la possibilità di dialogare, ritenuta inconcludente visti i personaggi, si decise di comune accordo di aspettare la fine del giro della giostra e poi di andare a rendere pan per focaccia all'incauto picchiatore di inermi ragazzi.
Forse dai nostri gesti e dai nostri sguardi trapelavano ed erano già evidenti le intenzioni, forse il giostraio si accorse che il capobanda di Castion toltasi la cintura se la stava arrotolando sulla mano cercando di collocare al meglio e ben in evidenza sul pugno chiuso la pesante fibbia, o forse agì solo d'istinto, in quegli anni le risse erano frequenti nelle feste paesane e ove presenti erano quasi sempre coinvolti anche i giostrai. Di fatto, tolta la corrente alla giostra, si era appeso al freno per bloccarla velocemente mentre a tutto volume urlava richiami ai suoi colleghi nel microfono, che normalmente serviva per gli annunci, nel disperato tentativo di avere aiuto per quella che si dimostrava essere una spedizione punitiva.
In pochi secondi la tranquilla Sois fu coinvolta in una specie di apocalisse illuminata dalla violenza delle luci di giostre e tirassegni, in una bolgia di giostrai di ambo i sessi e di tutte le età che smesse le normali attività, armati di tutto quello che riuscivano a raccogliere di contundente che avevano a portata di mano, accorrevano al repentino richiamo; gente che fuggiva lontano, tra questi il nostro Angelo, spaventata dal parapiglia e vogliosa di non essere coinvolta e noi fermi, quasi allibiti, in mezzo a tutto sto bailamme.
Dapprima, sbigottiti da tanto clamore, rimanemmo immobili ad attendere la loro prima mossa mentre, tra l'assordante rumore delle molteplici musiche che uscivano dai tanti altoparlanti dei vari baracchini gli esagitati giostrai agitavano davanti ai nostri visi martelli, coltelli da cucina ed altre armi improprie.
Forse per dimostrare di essere un duro o solo per adeguarmi a quanto avveniva in quegli anni mi ero munito e tenevo sempre in macchina una specie di manganello artigianale, si trattava di un grosso cavo elettrico ben coperto di nastro isolante per dargli la forma opportuna con una specie di laccio all'estremità che ne garantiva l'impugnatura.
Carletto alle prime avvisaglie di battaglia aveva pensato bene, senza per altro informare nessuno, di munirsi di quell'attrezzo che giudicava utile alla propria difesa ed alla propria incolumità personale. Spostato quindi non senza qualche difficoltà il tremebondo Angelo, che colà si era imboscato, lo aveva estratto dalla sua sede sotto il sedile di guida e cercando comunque di nasconderlo alla vista tenendolo dietro la schiena con entrambe le mani era tornato nel nostro gruppo che ormai era quasi completamente circondato.
Urla, insulti, agitazioni di braccia e di attrezzi, tutto sembrava fermarsi a questo, magari con qualche strascico polemico ma nulla di più, tanto che qualcuno dei giostrai stava abbandonando l'accerchiamento per tornare alle proprie mansioni ed il capobanda di Castion stava sciogliendo la cinta dalla mano per rimetterla al suo posto a sorreggere i pantaloni.

Improvvisamente un urlo che sovrasta gli altri!
Credo fosse la ragazza di uno dei tirassegno, che accortasi del manganello che Carletto aveva dietro la schiena, stava con una mano cercando di sottrarglielo mentre con l'altra armata di martello da chiodi cercava di vibrare un ben assestato colpo sulla testa del malcapitato.
Riuscii ad infilare la mano sinistra tra il capo del nostro ed il martello prendendo una dolorosissima martellata sulle nocche ed attutendo quindi un colpo che poteva avere delle conseguenze ben intuibili mentre la walchiria riusciva a strappare di mano l'attrezzo all'allibito Carletto ed io nel contempo le assestavo un sonoro ceffone con la mano destra.
Fu subito bolgia Dantesca, tutti che picchiavano tutti, assordati da urla e musiche a tutto volume illuminati, quasi abbacinati, dai mille colori delle accecanti luci del luna park.
Non durò molto, eravamo notevolmente inferiori di numero, il sacro fuoco della vendetta in molti di noi cominciava a lasciare spazio ad un sano sentimento di sopravvivenza (qualcuno di grande disse che il guerriero che vive può combattere anche domani) e tutto sommato eravamo molto meno determinati degli esperti giostrai nel campo delle risse. Sembravamo gli Spartani alle Termopoli, accerchiati da un numero sovrastante dove ognuno parava colpi per se e per il vicino.
Nel disordine generale ci ritirammo compatti, ognuno difendeva qualcuno ed era a sua volta difeso, ed il destino volle che ci ritrovassimo all'interno del raggio d'azione della giostra a catene che nel frattempo, male frenata nella fretta, aveva ricominciato a girare lentamente.
I seggiolini di ferro e plastica urtavano e sbattevano sui contendenti che non ci facevano eccessivamente caso presi come erano a menare ed evitare fendenti. La cosa cominciava, per noi, a prendere una brutta piega mentre pian piano la giostra, non più governata aumentava la velocità, ebbi un lampo di genio, mi aggrappai ad un seggiolino invitando chi mi era vicino a fare la stessa cosa e sfruttando la forza centrifuga imposta dal motore e girando con essa tirammo con tutta la nostra forza fino a sollevare la giostra, che probabilmente non era stata ben ancorata, dal lato a noi più lontano di qualche decina di centimetri.
Subito i giostrai allarmati dal possibile danno che poteva verificarsi al loro mezzo di lavoro abbandonarono la lotta precipitandosi a tirare sui seggiolini a noi opposti per riequilibrare la giostra e rimetterla a livello prima che rovinasse completamente al suolo. Improvvisamente attorno a noi tornò la calma, improvvisamente vedemmo la possibilità di andarcene senza subire ulteriori danni e così, seguendo la collaudata formula "ognuno per se e Dio per tutti", ognuno di noi si confuse tra la poca gente rimasta e corse verso il proprio mezzo di locomozione.
Dovemmo aspettare che il nostro pusillanime ci aprisse le porte dall'interno e poi proprio mentre ci stavamo ormai allontanando sopraggiunsero alcune macchine della Polizia probabilmente chiamata da qualche spaventato cittadino.

Eravamo ormai convinti che la cosa fosse finita in quel modo, non le davamo neppure più l'importanza per riparlarne tra di noi quando, alcuni giorni dopo, nel frattempo senza più mettere in moto la giostra a catene i giostrai se ne erano andati da Sois, in un sonnacchioso pomeriggio eravamo io e Silvano intenti, molto intenti, ad una partita di scopa al bar di Roe Basse, nostra abituale meta e nostra abituale occupazione dei pomeriggi liberi.
Arrivò un anonimo signore su altrettanto anonima macchina e chiese di noi a Gemisto, l'allora barista, che senza indugiare ci indicò. Venuto al nostro tavolo cortesemente attese che finissimo la partita e poi ci disse di essere un ispettore della Questura e che avremmo dovuto presentarci da loro il giorno dopo.
Puntuali, non avevamo altro da fare, il giorno dopo ci recammo, era la nostra e comunque più volte paventata prima volta, in quel luogo ed incontrammo un altro cortese e simpatico signore di non so quale grado, forse un ispettore, con il quale per altro negli anni successivi instaurammo anche un rapporto di amicizia.
Volle sapere tutto sui fatti di quella sera e noi non avevamo motivo di non raccontare la nostra versione; fu subito chiara una sua grande antipatia per i giostrai che probabilmente erano fonte di grosso lavoro per quell'ufficio, antipatia condivisa anche dall'ispettore che volle sapere ove risiedeva Carletto, ed alle nostre asserzioni che glielo avremmo mandato rispose infilandosi la pistola nella cintura dei pantaloni che era compito suo.
Alla fine venne fuori una imputazione per concorso in rissa ed una, solo per me e Carletto, per porto abusivo di arma impropria, la perfida giostraia aveva consegnato il mio manganello alle forze dell'ordine, e ci fu assegnato un comune avvocato d'ufficio.

Il processo ebbe seguito un paio d'anni più tardi, nel frattempo io e Silvano avevamo deciso di prendere un avvocato di fiducia mentre invece Carletto, convinto di risparmiare, decise di tenere quello che la sorte gli aveva assegnato, visto poi come tutto si svolse credo che anche il processo e dintorni meritino una breve menzione.
Quando fummo chiamati a rispondere davanti alla legge le Anime sul Ghiaccio erano ormai definitivamente a riposo pur se conservavamo ancora gli strumenti in qualcuna delle case semi abbandonate che utilizzavamo per incontri e feste, forse in attesa di tempi migliori, il genere musicale intanto aveva subito una notevole evoluzione e difficilmente avremmo potuto ancora tornare sul palco da protagonisti, pur se, anche solo per far festa, con quasi tutti gli ex componenti la band continuavamo ad incontrarci.
Possedevo ancora la splendida R8 gialla ma per motivi che narrerò in seguito non era in quel momento il mezzo migliore per presentarci come ragazzi pur vivaci ed esuberanti ma comunque normalmente moderati; per cui mi feci prestare la vetusta Gilera dal nonno paterno.
La Gilera 125 tre marce di nonno Tilio, ormai già quasi un residuato bellico, era ancora perfettamente funzionante malgrado i tanti anni ed i tanti chilometri percorsi sulle strade polverose in situazioni quasi mai ottimali, il nonno era stato un affermato commerciante di bestiame ed era noto per un burrascoso passato godereccio del quale la moto era stata spesso protagonista.
Alcuni, allora ragazzi, raccontano ancora di quando per rientrare dal Bar California alla fine della valle del Mis mentre già albeggiava, lo dovevano issare sul mezzo preventivamente messo in moto, inserire la prima marcia mentre lui tratteneva la frizione e poi spingere fino a che la velocità raggiunta consentisse l'equilibrio del centauro che lasciata la frizione poteva lentamente in quel precario equilibrio tornare a casa.
Caricato quindi Silvano sul sellino posteriore partii verso Belluno seguito da Carletto e Angelo sull'altra, più moderna, Gilera; Angelo si era unito a noi, saltando così una giornata di lavoro, forse per solidarietà od anche forse per un certo senso di colpa per non averci dato man forte nella famosa serata o forse solo perché era curioso di vedere un'aula di tribunale e di partecipare alla festa che si preannunciava a processo concluso o forse, più probabile, perché non aveva di meglio da fare.
Giungemmo in Piazzale Marconi, lì era in quel tempo la sede del Tribunale all'angolo di Via Feltre, e subito, visto che eravamo in notevole anticipo, entrammo nel bar prospiciente per temperare lo spirito e corroborare il corpo.
Al terzo grigioverde fummo raggiunti dai ragazzi di Castion anche loro presenti per il nostro stesso motivo, come era logico subito socializzammo a suon di grigioverde e marsala fin tanto che giunsero i nostri avvocati insieme a due Questurini; scoprimmo così di avere io e Silvano lo stesso avvocato dei Castionesi. Bevemmo qualcosa anche con loro, loro caffè e cappuccini, finché giunse l'ora della verità e salimmo la scalinata degli empi.
I giostrai non erano presenti ed il giudice, pur se giunto in ritardo, aveva fretta; interrogò alcuni di noi, sentì la relazione degli inquirenti e dette subito spazio agli avvocati per le arringhe conclusive.
Dire che restammo scioccati dall'intervento del nostro avvocato è dire poco; usando termini che non credevamo esistessero nella lingua italiana mentre passeggiava con la toga svolazzante per l'aula, il nostro si produsse in una accorata richiesta di piena assoluzione nei nostri confronti, imputando agli assenti ogni possibile nefandezza.
L'avvocato d'ufficio chiamato in causa per il proprio intervento, di malavoglia si alzò dal comodo scranno, mentre tutti noi attendevamo un altrettanto accorato appello, disse solo: "anche per il mio assistito le stesse cose richieste dal collega" e subito tornò a sedersi.
Vista la fretta del giudice di concludere penso che la sentenza sia stata motivata, almeno in parte, dalla gratitudine per il brevissimo intervento dell'avvocato d'ufficio; fummo tutti assolti con una formula che non ricordo per la rissa ed io e Carletto fummo condannati ad una multa di lieve entità per il porto d'arma impropria.
Subito giù ancora nel bar per il brindisi della vittoria, con avvocati e questurini, e poi ognuno per i fatti propri. Noi quattro decidemmo che era giusto festeggiare appieno e visitare anche i bar del centro per cui in sella ai rispettivi bolidi via a scorazzare per piazza Campedel.
La marmitta della Gilera del nonno non era delle più silenziose ed un solerte vigile urbano ritenne opportuno fermarci per i rituali controlli, scendemmo io e Silvano mentre gli altri ci aspettavano a pochi metri; con tutta la nostra calma tirammo il mezzo sul cavalletto e poi chiedemmo al vigile cosa potevamo fare per lui. Con la rituale formula questi ci chiese patente e libretto.
Per la patente non fù un problema visto che la tenevo nel portafogli, il libretto della moto invece non avevo la più pallida idea di dove poteva essere, sempre che ci fosse. Cercammo di spiegare al meglio la situazione, ma quello duro come un ciuco voleva vedere il libretto.
Era nel frattempo sceso dalla propria moto anche Carletto e si era avvicinato per darci i consigli del caso nella nostra disperata ricerca, Angelo naturalmente era rimasto in disparte.
Provammo a guardare sotto i sellini ed in ogni possibile luogo che per logica poteva contenere i documenti; poi mentre il tutore dell'ordine dava insofferenti segnali di impazienza cominciammo a smontare qualche pezzo. A quel punto il vigile impressionato dalle nostre azioni mentre sull'asfalto tutto intorno alla moto cominciavano ad esserci pezzi e pezzettini della stessa, più o meno arrugginiti, non sapendo come ulteriormente agire, ci invitò ad abbandonare in tutta fretta la piazza, naturalmente portandoci via la ferraglia così ben sparpagliata, ed invitandoci a mai più tornare con il rudere, minacciando improbabili sanzioni e punizioni.
Insieme a Carletto e Angelo raccogliemmo qualche pezzo, che ci sembrava ancora utile al mezzo lasciando sul luogo dell'incontro quelli più arrugginiti, e mentre il solerte vigile si allontanava senza più neppure voltarsi ripartimmo con il rombo delle marmitte che sembravano ancora più aperte.




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